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Via di Monte Testaccio (R. XX – Testaccio) (da via Nicola Zappaglia a piazza Orazio Giustiniani)
La via “Viene così chiamata perché conducente al vicino monticello detto di Testaccio [1], il quale essendo formato dai frantumi dei vasi di terracotta detti dai latini "testa", fu perciò appellato di "Testaccio" (Rufini - 1847)
È per questa via che Virgilio Pubblico Marone (70-19 a.C.) fa sbarcare Enea, pressappoco dov’è oggi l’arco di San Lazzaro (in via Marmorata) che fece parte dell’Emporium. Nel ‘500 fu chiamato "dei 7 Vespilloni" ed anche "delle 7 vespe" e “Orazio Coclite” dalla vicinanza del ponte Sulpicio. Ebbe il nome di San Lazzaro [2] da una piccola chiesa, alla quale era annesso un lazzaretto per i malati di lebbra, malattia che cominciò a serpeggiare in Occidente nel periodo delle ultime crociate (XII-XIII sec.). Sotto l’arco passava una strada per i pellegrini che si recavano alla tomba di San Paolo; dall’insegna di una farmacia, la strada fu pure chiamata "via del Gobbo".
Circa l’origine del Monte Testaccio dice un antico codice della Biblioteca Casanatense (il "Libro imperiale”): “La gente (romani) viveva sanza alchuna spesa, però ch’el magiore tributo si arrechassi a Roma, per la magiore ciptà del mondo, erano 10 honce d'oro per anno, sicché picchola cosa per uomo ne tocchava. E’ (ed i) tributi venivano in Roma in vasi di terra inventariati chon diversi cholori, e per questo provvidono e’ romani per fare di ciò perpetua memoria, perché come el tributo era raggio gianto (aveva raggiunto) a Roma jettavano et rompeano el vaso in loco de che apare uno grannissimo monte apreso a quela porta che va a Santo Pagholo , addove ecce lo sepolcro de Remo (piramide di Caio Cestio), che se dice la meta del Santo Pagholo. Tanto vuole dire meta quanto sepoltura, et chosì la chiamaveno l’antichi. Molto furono e’ romani da granne provedimento. Pensanno de dare fama perpetua alla ciptà de Roma facievano le vase rompere acciò che la giente, ne pe artra chagione giamai non faciessino chura de cotali chose avere. Onde e’ furno tante le vase, che se ne fecie a Roma uno grannissimo monte, sicchome ancora appare, et poneveno uno suolo di cocci et uno suolo di terra, et anche tiene quello nome, perché se chiama el monte de’ cocci, dove se fa feste del toro in tempo de charnasciale”.
Ora dal recupero dei cocci, che a strati (come detto dal cronista suddetto) formano il monte, si è potuto stabilire che in certi punti del colle si trovano riuniti “pezzi appartenenti ad una serie di anni ben definiti e talvolta circoscritta entro breve periodo. Che le anfore datate, segnano un tempo non maggiore di due anni e financo un anno solo”. Le testimonianze epigrafiche più antiche segnano l’anno 144 e le più recenti l’anno 255.
Le anfore dei vasi che contenevano grano, olio, vino ecc. avevano forma oblunga. Quelle sferoidali, è stato constatato, provenivano dalla Spagna e portavano scritto: “Fisci rationis patrimonii provinciae Baeticae”. Non potendole eliminare nel Tevere, per non sopraelevarne il fondo, i romani evidentemente usarono il sistema dell’accumulamento stratificato.
Quanto alle feste [3] del toro, citate dal "Libro imperiale"[3bis], la prima giostra, di cui s’abbia ricordo, fu tenuta a Roma nel luglio dell’anno 1313. Durò tre giorni, e vi prese parte Amedeo V (1285-1325) di Savoia, cognato dell’imperatore Enrico VII (1308-1313), che ruppe 15 lance e fece prodezze tali che riportò il premio della picca e fu dalle dame coronato d’alloro [4].
Altro spettacolo nel medioevo, era quello costituito da maiali che, legati sopra carri scoperti, si facevano scendere rotoloni dal Monte Testaccio, contesi da basso da "jocostores” che allenati al gioco, cercavano di impadronirsi del porco.
Così pure per la giostra dei tori [5] che, condotti sul campo uno per rione che ne curava l’infiocchettatura, ci si procurava per 1° premio al vincitore (bravium) una pezza di ricco panno (pallium).
Nel “Liber censuum” (XII –XIII sec.) è detto: “Nella domenica avanti la quaresima sorgono i cavalieri e i pedoni dopo il pranzo e bevono fra loro. Quindi i pedoni deposti gli scudi, vanno al Testaccio e il Prefetto con i cavalieri va al Laterano. Il Papa scende dal palazzo e cavalca col Prefetto e coi cavalieri fino al Testaccio, affinché, come qui ebbe un non piacevole principio, quivi in quel giorno il piacere del nostro corpo abbia fine. Fanno il gioco alla presenza del pontefice, perché non sorga fra loro nessuna contesa. Uccidono un orso e viene ucciso il diavolo, cioè il tentatore della nostra carne; sono uccisi dei giovenchi e s'uccide la superbia del piacere; si uccide un gallo e si uccide la nostra lussuria, affinché in seguito viviamo costantemente sobriamente nella lotta dell'anima".
Così inveterato era l’uso di tali feste che perfino al definitivo ritorno da Avignone (1371) di Gregorio XI (Pierre Roger De Beaufort - 1370-1378) l’ingresso suo nell’Urbe, che Francesco Petrarca (1304-1374) e Santa Caterina da Siena (1347-1380) avevano desiderato fosse stato tra voci salmodianti e con il solo Crocifisso, si svolse invece fra tripudi e canti, mentre il pontefice era preceduto ed attorniato da saltatori e giocolieri mascherati [6bis].
Il Testaccio apparteneva allora, da gran tempo, al Priorato di Malta [6], tanto che il Comune gli pagava ogni anno, per poterne usufruire, un fiorino d’oro che andava attribuito al fondo spettacoli e feste, cui concorrevano i rioni cittadini e gli ebrei con 1130 fiorini d’oro annui [7].
Il "Campus" diventò così proprietà del Comune ed una lapide a destra della porta di S. Paolo dice: "Campo di Testaccio, destinato al pubblico pascolo dal Sacro Senato e Popolo Romano, secondo gli Statuti della città, perché nessuno se li attribuisca, questa memoria ecc.".
Questi statuti comunali, che risalivano al XIV secolo, stabilivano, all’articolo 84, che era proibito "far seminare o arare, sotto pena del pagamento di 300 provisini a favore della Camera Capitolina, mentre tutti potevano in detto campo tenere al pascolo le bestie senza incorrere in alcuna pena".
Fu pure permesso di costruire, sotto il monte, alcune grotte per refrigerare il vino, com’è detto su una pianta topografica di esse, custodita dal 1694 nell’archivio storico Capitolino: "Ha una mirabile proprietà (il monte di cocci) ed è che nell'estate esce da questi frammenti, nella parte infima, quando siano ben disposti, un vento freschissimo, e però vi sono fatte dintorno più sottostanze, con grotte al piano terreno di fuori con capanne a spartimenti, nelle quali il vino viene notabilmente rinfrescato".
Un’altra memoria dice: “settembre 1642 - Fu edificata una casa di legno sopra il Monte Testaccio per scoprire da lontano la marina, perché sono molti vascelli per mare” .
Del resto il Monte già si era prestato ad usi bellici. Sulla fine del XVI secolo e il principio del XVII, i bombardieri di Castel Sant’Angelo [8], artiglieria creata da Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini - 1592-1605), sparavano fra i cocci, tanto intensamente, che la breccia si vede ancora nonostante il 14 maggio del 1607 un’ordinanza dei Conservatori di Roma avesse vietato l’asportazione delle "teste".
Diventò anche deposito di proiettili e materiali esplosivi finché, nel 1752, Benedetto XIV non costruì a tale scopo quel piccolo fabbricato (servito poi da carcere militare dopo il 1870) che è di fronte a quell'ufficio Postale di Testaccio che per quella costruzione a piccoli vetri fu detta "Cerotto Bertelli".
Ma, nel 1849, fu addirittura una postazione militare quando, Monte Testaccio, dalla sua cima, batté con tre pezzi i francesi che si avvicinavano a Porta San Paolo. Le bocche da fuoco da 36 cm, 18 e 9, col loro tiro di controbatteria fecero tacere il 5 giugno le artiglierie nemiche e dopo aver arrecato, il giorno 19, danni al nemico assediante, il 22 furono posti in batteria sull’Aventino, senza poter impedire al generale Carlo Le Vaillant di entrare il 3 luglio da Porta San Paolo.
Le ottobrate che fin dal XVIII secolo prendevano la strada del Testaccio (il giovedì e la domenica), dopo la parentesi bellicosa, ricominciarono con balli, canti, sfilate di carri addobbati e pranzo che non somigliava al nostro, né per volume né per spesa. Dice Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) [10]:
Ma senti er pranzo mio. Ris’e piselli, Allesso de vaccina e gallinaccio, Garofolato, trippa, stufataccio, E un spiedo de’ salcicce e fegatelli. Poi fritto de carciofi e granelli Certi gnocchi de facce er peccataccio, Na pizza aricresciuta dello spaccio, E un agroddorce de cinghiale e uccelli. Ce furno peperoni sottaceto, Salame, mortadella e casciofiore, Vino de tutto pasto e vin d’Orvieto. Eppoi ristorio der Perfettamore, Caffè e ciammelle: e t’ho lassato arrèto Certe radice da slargatte er core. Be', che importò er trattore? Cor vetturino che magnò con noi, Manco un quartin per omo: e che ce voi? [11]
Certo che così si spiega la risposta data da una popolana, che và a rinfrescà er gobbo (pegno al Monte di Pietà), ad un’amica che le domanda:
"Ma perché l’impegnassi?-Oh questa mò, È più buffa dell’antre! – Insomma, ebbé? Pe annà a Testaccio a divertimme un po'.
Nel 700, circondato da un fossato, sorse quel cimitero acattolico, prossimo alla Piramide Cestia [9], e che oggi, circondato da mura, sembra un giardino. Il primo ad esservi tumulato sembra sia stato nel 1720 sir William Ellis, tesoriere degli Stuart, vi fu pure sepolto sir Langton i cui resti, prossimi alla piramide, furono rinvenuti nel 1930, giacché come detto, il cimitero non era cintato. Fu il ministro di Prussia a Roma, barone Bunsen, che alzò, nel 1824, il muro di cinta a protezione delle tombe, poco rispettate dai cattolici romani, e dalle pecore e dalle capre che vi pascolavano liberamente. Fra gli altri vi riposano oggi Shelley [12], Keats, e Colemann.
A pochi metri dalla tomba di “Goethe filius [13] – patri – antevertens - obiit anno-XL=MDCCCXXX", c'è quella di Chr.Ang. Kestner, vero figlio [14] della "Carlotta" del Werther, e l’altra di miss Rosa Bathurst che, a cavallo, affogò nel Tevere a Ponte Milvio. Ancora altri, come Hans Barth e Ludwig Stein, che vollero riposare nella terra della Magna Mater, piuttosto che in quella nativa.
Nel 1890 sotto il "Monte del Mondo” (fu pure chiamato così dalla provenienza dei cocci che lo compongono) sorse il Mattatoio di Roma [15] (l’ammazzatora-”dove più batte l'anima romana”) che servì anche ad accrescere la popolazione del rione, che aveva avuto il suo inizio nel 1883.
Delle chiese medievali del Testaccio se ne ha, più che l’ubicazione, la storia.
Così Sant’Euplo; prossima a questa chiesa, quella di S. Salvatore della Porta che, secondo gli apocrifi [16] di S. Paolo (IV-V sec.), fu eretta dove Plantilla attese San Paolo di passaggio per il martirio, e gli dette un velo, restituitole dal martire dopo morto. La chiesa doveva avere un ipogeo con altare sotterraneo e da essa cominciava la "porticus quae ducit a porta ad San Paulum apostolum”[17].
Fra il Tevere ed il Monte Testaccio [18], San Giacomo in Horreu nei pressi dell’arco di S. Lazzaro, dove furono appunto gli Horrea, era già nel XIV secolo mezzo abbandonata.
San Giovanni in Orreu più antica e S. Pietro e Martino, che aveva annesso un monastero e di cui si parla sotto Giovanni XII (955-964).
Santa Maria Liberatrice [18bis] (sulla piazza omonima) è l’attuale parrocchia del Testaccio che ha l’identico titolo di quella demolita [19] al Foro romano e sotto la quale esisteva la basilica di Santa Maria Antiqua [20].
Sotto la parrocchia di Santa Maria Liberatrice del Testaccio, morì Tito Livio Cianchettini, l’autore semi pazzo del “Travaso delle Idee”. Titolo che fu poi dell’umoristico giornale omonimo.
Il testamento da lui lasciato diceva: "Li beccamorti, cioè quelli che beccheranno il mio corpo decesso, come coloro che vorranno beccare il mio spirito non decessibile, lorché i miei cigli saranno chiusi nel definitivo, verranno a frugare sotto il mio pagliericcio in cerca della borsa e del pensiero e si resteranno con palma vuota ed anima disillusa... In quanto al pensiero, io lo trafugo e lo nascondo alla manomettente curiosità, disposta a ridere di quello che non percepisce. Ovvero sia sentendo di vicinarsi dell'ora ultima, mi trascino in questo luogo di ombra recondita e lo seppellisco, prima che altrove io medesimo venga seppellito. Ciò compio e addio".
Le “Res gestae” di Tito Livio Cianchettini ci fanno capire perché, al paragone del presente, sembra tanto bello il passato. È perché gli imbecilli che sono morti, nessuno li ricorda. Bisognerebbe, però, tener almeno presente che in ogni generazione vi sono dei vecchi imbecilli che hanno cominciato con essere dei giovani scemi.
Nei lavori di fondazione delle case al Testaccio, eseguiti nel 1911, sono state rinvenute basse costruzioni antiche, in prevalenza di "opus reticolatum" che per la loro ubicazione e forma di costruzione non lasciano alcun dubbio trattarsi di "horrea"[21].
Tra i prolungamenti delle vie Bodoni e Giovanni Branca, si possono vedere alcuni tratti di muri reticolati, intervallati da soglie di travertino, ingressi e vani interni del lungo corridoio formato dai detti muri.
Sotto di essi una galleria sotterranea con le pareti e la volta di pietrame che, seguendo la direzione dei muri suddetti, aveva fra la volta e il pavimento superiore delle fistule acquarie di piombo con in rilievo su ciascuna di esse: “XX Imp. Hadriani Aug. N. Sub Cura Marci. Cyrenici Proc. Aug. Fec. Lucifer Lib.”
In un angolo formato da uno dei muri, si trovò un informe massa di metallo, formata da una grande quantità di monete, in gran parte fuse, e si poté constatare che mentre la più antica risaliva ad Antonino Pio (138-161) la meno antica era del regno di Marco Aurelio Carino (283-285), epoca nella quale un violento incendio funestò la città (283).
Altri notevoli ritrovamenti nelle vicinanze, come all’incrocio delle vie G. Branca e via Franklyn, un cippo ornato con l’iscrizione dedicatoria: "Iussu – Geni Sancti – H(orreis) S(eianis) – Primus – Aemiliae – Clementinae – D(onum) D(edit) ." dedicato forse da Primo, servo di Emilia Clementina.
Altri cippi dedicatoria degli horreari al "genio horreorum"; "Genio horreorum Leonianorum"; “Genio conservatori” e “Fortunae conservatrici horreorum Galbianorum”.
Più importante quest’ultimo perché dà, con una certa approssimazione, il luogo degli "horrea Seiana", spostandolo più a sud di quello che si credeva che fosse, e più verso il Tevere; precisamente sulla sinistra, anziché sulla destra, di quella strada che fu più volte riconosciuta, ed il cui tracciato si staccava dall’attuale via Marmorata al Tevere (vedi Via Marmorata - Ripa).
Altri cippi sono dedicati a Giove Silvano e ad altri Dei non identificabili con precisione, se non dalle sole iniziali, come pure il cippo dedicato ad Ercole, il cui culto era in grande onore presso gli "horreari".
Una dedicazione alla salute della casa imperiale è stata ritrovata presso l’attuale via Rubattino:
“Saluti . Domus . A(ugustae) Collegium . Thurarior(um et) Unguentarior(um) . Cura(m) .A (gente) Novio . Successo . Quaes(tore)”.
E poiché i “questores” nei collegi erano i cassieri amministratori del denaro collegiale, è chiaro che fu Novio Successo che dedicò l’oggetto offerto, alla salute della Casa Imperiale, dal collegio dei venditori d’incenso e unguenti, che aveva un affine “collegium aromatar(iorum)” in Roma.
All’angolo di via Marmorata con via Giovanni Branca, nel 1935, a circa 3 m di profondità dal piano stradale, sono stati trovati i resti di un piccolo, ma elegante, edificio. La sua costruzione, certamente risale al I secolo dell’impero, e sembra sia stato un "tetrastylon" o "schola" di un collegio o di un sodalizio, edificio che fu riparato durante il II secolo.
Vicino ad esso, 5 frammenti marmorei inscritti, ora al Museo delle Terme, ricomposti, si sono rivelati importante documento epigrafico, e forse in relazione con l’edificio tornato in luce. Essi formano la parte inferiore (la superiore non fu rinvenuta) di una stele marmorea opistografica (scolpita su entrambe le facce) [22].
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[1] ) Nei primi otto anni del 1700, il venerabile Angiolo Paoli (1642-1720), frate carmelitano, promosse una sacra rappresentazione con partenza da Santa Maria in Cosmedin ed episodio finale della Passione, la morte in croce di Gesù affiancato dai tre ladroni, sul Monte Testaccio, assimilato al Golgota. Fu così che, tra il 1700 e il 1708, sulla cima del Monte Testaccio apparvero tre croci.
[2] ) San Lazzaro, protettore dei lebbrosi, era una cappellina, addossata all’arco omonimo, presso la quale stazionavano i pellegrini che, in direzione di San Pietro, percorrevano la via Marmorata.
[3] ) Anche i "Saturnalia” dilagavano dall’Aventino al Testaccio. Da Paolo II (Pietro Barbo - 1464-1471) il Carnevale fu celebrato al Corso (La festa passava da Testaccio a piazza Venezia).
[3bis] Il Libro Imperiale, probabilmente di Giovanni Bonsignori (XIV sec.) fu stampato per la prima volta, col titolo “Comenciase el primo libro imperiale ove tratteremo de le conditione e modo de Iulio Cesaro”, nel 1484
[4] ) Il Conte Grande. Sull’araldica Sabauda non v'erano ancora (nelle monete e nel collare dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata) i nodi d'amore aggiuntivi quando, nel 1348, il Conte Verde (Amedeo VI - 1334-1383), quattordicenne, vincitore di un torneo a Chambery, ebbe "un bacio sulla bocca" dalle quattro più belle dame presenti.
[5] ) La giostra dei tori o vaccine, si svolgeva senza spargimento di sangue. I giostratori di Vetralla, Ronciglione, Tuscania, Viterbo e quelli di Roma, lottavano con le vaccine e finivano con atterrarle. Tali spettacoli, che si tenevano prima tra le mura e il Tevere, dove fu poi sistemata la cavallerizza dei Carabinieri di Piazza del Popolo, furono poi trasferiti nel mausoleo d'Augusto e nessuno pensò più ai prati dell'antico Testaccio.
[6] ) I cavalieri possedettero anche piena ed intera giurisdizione a Viterbo, dove avevano posto residenza nel gennaio del 1524. Dopo il sacco di Roma (1527), si trasferirono a Corneto Tarquinia, quindi passarono a Villafranca e a Nizza finché Carlo V nel 1530 diede loro l'isola di Malta.
[6bis] ) Tra le varie manifestazioni del carnevale è da ricordare Luigi Guidi (1833-1901), che aveva la bottega di “Cenciaiolo” a via dei Vecchierelli a Ponte e che, probabilmente aiutato dai prodotti del suo mestiere, aveva inventato la maschera del “Generale Mannaggia La Rocca”. Il Guidi si vestiva da “Generale” con una divisa inventata: pantaloni blu con banda di colore rosso, molte decorazioni di cartapesta, un cimiero ricco di piume di carta colorate ed un enorme spadone di legno e si presentava a cavallo di uno stremato ronzino. La sua corte era costituita da un trombettiere, da un tamburino e da vari personaggi ed era sempre seguito da una ciurma di “ragazzini” che muniti anch’essi di sciabolette di legno e cappelli di carta, lo seguivano facendo una grande gazzarra.
[7] ) Nel 1847 cessò l'omaggio ebraico al Senato Romano per il Carnevale. La corsa degli ebrei era già stata abolita nel 1668 da Clemente IX (Giulio Rospigliosi - 1667-1669).
[8] ) "I bombardieri più provetti si conducevano sulla piana di Testaccio per esercitare i novizi al tiro del cannone, avendo perciò sempre all'ordine alcuni premi per darli a chi più si avanzasse nel bersaglio".
[9] ) La piramide di Caio Cestio fu incorporata da Aureliano nelle mura, fatta oggetto di rapina da parte dei barbari, che credevano trovarvi tesori nascosti, fu creduta nel medioevo la tomba di Remo, come dice anche il Petrarca. Durante i restauri, fatti fare nel 1656 da Alessandro VII (Fabio Chigi - 1655-1667), fu scoperta la camera sepolcrale ornata da rilievi e pitture riferentesi alla dignità sacra di cui godé il defunto, che fu uno dei Settemviri degli Epuloni, cui spettava di apparecchiare l’Epulo (banchetto) agli Dei e particolarmente a Giove. La piramide è in opus caementicium rivestito con blocchi di marmo bianco, poggia su una grande fondazione di travertino ed ha metri 29,50 per lato alla base ed è alta metri 36,40. Agli spigoli della piramide erano quattro basi per colonne ad altre due per statue verso oriente, con un'iscrizione che dava la lista di tutti gli eredi e le disposizioni del testamento, fra le quali: che la piramide fosse ultimata entro un anno dalla morte del testatore. Infatti nel lato orientale è scritto: “opus absolutum ex testamento diebus CCCXXX, arbitratu Ponti Publii Filii Claudia, Melae heredis et Pothi Liberti”. Mentre dal lato opposto è scolpito: “C. Cestius Lf Pob. Epulo pr. Tr. Pl. VII vir epulonum”. La piramide sorgeva all'angolo di due strade, che si riunivano poco dopo l'attraversamento delle mura dando origine alla via Ostiense extraurbana.
[10]) L’Osservatore Romano del 31 dicembre 1863 scrive: "Nella sera del 21 dicembre, circa le otto pomeridiane, passava improvvisamente di questa vita Giuseppe Gioacchino Belli, romano, poeta e letterato chiarissimo..... Giuseppe Gioacchino Belli visse 72 anni e tre mesi". Morì al secondo piano del palazzo Amadei (ora demolito) in via delle Stimmate 24. Ivi abitava pure il figlio Ciro che nel 1849 aveva sposato Cristina, figlia di Giacomo Ferretti (era chiamato ser Giacomo Frustabaccelli dal poeta Giovanni Gioacchino Belli). Altra figlia del Ferretti, Chiara, sposa di Alessandro Spada e Barbara sposa di Pio Barberi. L'unico maschio del Ferretti, Luigi, nacque nel 1836 e morì nel 1881, ingegnere e sopraintendente delle scuole municipali di Roma. Giacomo Ferretti che morì nella casa di via delle Stimmate il 7 marzo 1852, fu anch’egli poeta e buon librettista, tra gli altri, di Rossini e Donizetti. (Studi romani 1956 pag.675).
[11] ) Giovanni Gioacchino Belli fu ammesso in Arcadia su proposta degli amici Pietro Ruga e Filippo De Romanis, ebbe il nome di Linarco Dirceo, nel 1818.
[12] ) Per epigrafe di Shelley, morto annegato (+1822), Byron scelse i versi di Shakespeare: (Tempesta, canto di Ariel): “Nothing of him that doth fade – but doth suffer a sea change – into something rich and strange!” (Di un grand’uomo “Niente si dissolve ma subisce una metamorfosi marina per divenire qualcosa di ricco e strano”).
[13] ) Morto nel 1830.
[14] ) Morto nel 1853.
[15] ) A Roma, prima del 1825, la mattazione del bestiame veniva effettuata nelle macellerie entro la città ed ogni spaccio abbatteva solo gli animali sufficienti per la propria clientela (non solo nelle macellerie, infatti parecchi editti di questo tenore erano saltuariamente pubblicati, “1659 gennaio 13 - Editto dei maestri delle strade di Roma, col quale si vieta di macellare gli animali nelle vie e piazze" - Biblioteca Casanatese, editti, tomo 9, pag.3). Leone XII (Annibale Clemente della Ghenga - 1823-1829) soppresse questa usanza e dal 4 giugno 1825 fu ordinato che nell'apposito stabilimento, fuori porta del Popolo "dovevano precettivamente mascellare (macellare) in esso tutti i bovi, vitelli, castrati, pecore, agnelli e maiali destinati al consumo della città di Roma e luoghi suburbani". Nella suddetta ordinanza era pure stabilito che a favore della Congregazione di Carità, ogni macellaio dovesse cedere gratis una delle zampe della bestia macellata. Il servizio del Mattatoio fu condotto fino al 1852 dal Comune che, in seguito, e precisamente nel luglio di quell'anno, lo appaltò a sollievo del proprio bilancio. Anche appaltato era l'ufficio di "Pubblico Pesatore del Popolo Romano", cui, per tradizione, dovevano ricorrere, nelle loro contrattazioni, i negozianti tutti. Abolito nel 1831 l'obbligo della pesa, il 10 settembre dello stesso anno fu istituito un altro ufficio che esercitava le stesse funzioni, solo dietro richiesta dei singoli che, per qualche controversia, volevano far verificare il peso delle merci contrattate.
[16] ) Fra gli atti apocrifi anche quelli sotto Pilato, dove l'autore premette di aver scoperto e tradotto quanto scrisse in ebraico Nicodemo (membro del Sinedrio e discepolo di Gesù).
[17] ) Dopo la porta, entrando in città, la portica, senza soluzione di continuità conduceva a S. Pietro.
[18] ) Presso il Tevere era una località, non precisata, detta "Aesculetum” dagli Ischi (alberi da ghianda) che vi vegetavano.
[18bis] La formazione del quartiere Testaccio, fino ad allora terreno campestre, risale al Piano Regolatore del 1881 e seguenti. Nel 1879, Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Pecci – 1878-1903) aveva acquistato il terreno occupato dalla chiesa attuale e dalle sue pertinenze al fine di erigere un luogo di culto ed aveva affidato ai Benedettini di Sant’Anselmo (vedi via di Santa Sabina – Varie - Ripa) il compito di occuparsi dei lavori. Ma i fondi stanziati non furono sufficienti ed i lavori si fermarono alle fondazioni. Nel 1904, Pio X (Giuseppe Melchiorre Sarto – 1903-1914) rilanciò l’opera definendo il nome della nuova chiesa come “Santa Maria Liberatrice” ed affidò l’opera ai Salesiani, già impiantati nel quartiere in formazione. I lavori ripresero, nel 1906, sotto la guida dell’architetto Mario Ceradini (1865-1940) e terminarono nel 1908. La chiesa fu realizzata a Croce greca, in laterizio e travertino, con il braccio maggiore a tre navate. Il suo asse maggiore misura 51 metri per una larghezza del transetto di 35.
[19] ) Demolita nel 1880.
[20] ) Ritrovata dal Boni nel 1899.
[21] ) I “cataloghi regionari” a Roma, danno la cifra di 290 horrea.
[22] ) Nella parte in alto, in ciascun lato della stele, era scritto un semestre del calendario romano. Nella parte anteriore in basso, sotto il testo del primo semestre, sono registrati i nomi dei consoli, eponimi e suffetti (magistrati), dall’anno 43 a.C. all’anno 3 d.C. L'ultima colonna, delle sei binate e divise da due cordoni verticali, ha ancora dello spazio rimasto liscio senza che la serie sia stata continuata. I fasti Consolari e Censori iniziarono dunque con l’anno nel quale Ottaviano ottenne per la prima volta il consolato, e, con atto evidente di cortigianeria, l’elenco comincia con i nomi di C. Iulius (Octavianus) e del suo collega Q. Pedius, consoli suffetti, omettendo gli eponimi C. Vibius ed A. Hirtius. Nel lato posteriore dell'epigrafe, sotto il testo del secondo semestre, sono registrati i nomi dei "vicimagistri" (Chiamati anche con voce greca "stenoparchi” ossia capi dei demi = vici), disposti su quattro colonne, senza i cordoni divisori come nel lato opposto. Cominciano dall’anno primo dell’istituzione di quel magistero (anno 7 a.C.) fino all’anno XXVII (21 d.C.). C'è da notare che fra i cognomi dei magisteri elencati in questa epigrafe, in gran parte romani, vi sono non pochi cognomi grecanici, che indicano la loro provenienza dall’oriente e la loro originaria condizione servile. I nomi furono conservati quali cognomi, all’atto della manomissione, in aggiunta al prenome ed al gentilizio del “dominus”, cui avevano servito. Si spiega la presenza di tali nomi in una località eminentemente commerciale, nell’immediata vicinanza al grande “Emporium” e prossima agli immensi “horrea”, abitata da famiglie di origine straniera. Nell’elenco però non è trascritto il nome del "vicus" in cui i “magistri” nominati esercitarono il loro ufficio, ma si crede possa essere il "vicus Frumentarius" il più vicino agli "horrea" (XIII sec.). Durante la Repubblica, gli organi che più direttamente amministravano la città furono i Censori e gli Edili. I Censori, avendo la gestione dei beni dello Stato, determinavano la proprietà con opere di terminazione, attribuivano il suolo pubblico, concedevano le acque, costruivano e custodivano gli edifici pubblici. Nell’età imperiale, le antiche magistrature furono sostituite, almeno di fatto, dall’imperatore il quale assume anche la competenza delle opere pubbliche.
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