Piazza di San Marco (R. IX Pigna - R. X Campitelli) (limitata a sud da via di San Marco e ad est da Piazza Venezia)
La piazza prende il nome dalla basilica omonima e fu anche detta “Concha de S. Marco, e Piazza Nuova”. La tradizione vuole che la basilica sia stata edificata dov’era un oratorio fondato dallo stesso S. Marco evangelista, nel 42-43 d.Ch., quando San Pietro fu messo in carcere, a Gerusalemme, da Erode Agrippa (10 a.Ch.-44 d.Ch.).
L’apostolo Pietro, liberato da un Angelo, si rifugiò presso il Getsemani, nella casa di Maria, madre di S. Marco. Accadde così che S. Pietro, nella sua venuta a Roma, recò seco il discepolo. Questi, che era alloggiato presso una famiglia cristiana alle falde del Campidoglio, fondò una “domus ecclesia” ed oratorio, nella casa dell’ospite [1], incitato dai neofiti che lo pregarono: “Essendo quello che da tempo seguiva Pietro e ne teneva a mente i detti, di mettere in iscritto le cose predicate dall’apostolo”, ivi “scrisse il vangelo e lo consegnò ai Romani”. Tre secoli dopo, dal “Liber pontificalis” sappiamo che il papa Marco (gennaio 336-ottobre 336), coll’aiuto pecuniario dell’imperatore Costantino [2], fece costruire nel 336 la Basilica, che fu poi distrutta da un incendio [3], come è risultato da recenti scavi.
Il pontefice Adriano I (772-795) (“de regione via Lata”), che da piccolo aveva frequentato la chiesa, la restaurò e ne rifece il tetto, ordinando che fosse officiata “pro requie animae suae”. Gregorio IV (827-844) la ricostruì “firmo fundamine”[4] e, dal cimitero di Ponziano, vi trasportò i corpi dei martiri “Abdon e Sennen” nobili persiani uccisi al Colosseo [5]. Nel 1154 vi fu anche trasferito, dal castello di Giuliano, presso Velletri, il corpo di S. Marco papa [6].
La basilica fu completamente rinnovata da Paolo II (Pietro Barbo - 1464-1471) che l’incorporò al suo palazzo. Altri restauri furono quelli del veneto Nicolò Sagredo fra il 1651 e il 1661 e del cardinale Angelo Maria Quirini (1680-1755) nel 1740-1750.
Nei recenti scavi si è trovata una cassa di cipresso a due scomparti dove erano contenute, dentro una capsella [7] di piombo, preziose tovaglie ricamate con le spoglie di papa Marco e dei martiri: Restituto, Abdone e Sennen.
I Papi trasformarono la processione della Robigalia [8], il 25 aprile, in quella di S. Marco. Una simile processione partiva da S. Lorenzo in Lucina, recandosi sulla Flaminia, cantando Kirie, salmi ed inni ecclesiastici (Litania maior), per raggiungere la basilica di San Marco.
Fino al 1910, il così detto “Viridarium”, che è stato ricostituito alla sinistra di chi guarda la basilica, stava alla destra ed era il giardino del palazzo Venezia che con i suoi loggiati aerei e coi suoi portici fu la delizia di Paolo II (Pietro Barbo - 1464-1471) e dei suoi successori. Sotto Paolo III (Alessandro Farnese - 1534-1550) il “Viridarium” [9] diventò il “Palazzetto”, in seguito alla trasformazione operata dal pontefice che sostituì le volte ai soffitti e mutò in camere i loggiati aerei. Paolo III fece pure costruire, nel 1546, una torre all’Aracoeli [10] ed un cavalcavia coperto che dal palazzotto portava alla nuova costruzione così, “con un salto”, poteva “recarsi alla sua casa”.
Il palazzetto, anche quando Pio IV (Giovanni Angelo Medici - 1559-1565), con breve del 10 giugno 1564, donò il palazzo Venezia alla Serenissima [11], restò ai cardinali del “titulus Pallacinae” che per contratto dovevano essere “di nazione veneziana”, ma spesso vi soggiornarono gli stessi pontefici. Gregorio XIV (Niccolò Sfondrati - 1590-1591) vi si fece trasportare il 4 ottobre e vi morì il 15 [12],
Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini - 1592-1605) fu l’ultimo papa che vi soggiornò, dall’estate del 1593 sino al 1597. Egli prendeva “piacere in passeggiare quel giardino et goder la vaghezza di quelle nobilissime fontane”.
Quando Clemente XIV (Gian Vincenzo Antonio Ganganelli - 1769-1774), con un Breve, affermò “il sito controverso” e cioè che “il palazzetto" era compreso nella donazione di Pio IV, gli ambasciatori della Repubblica di Venezia [13], che dimoravano dal 1564 nel palazzo Venezia, occuparono anche il Palazzetto fino al trattato di Campoformio del gennaio del 1798. Subentrò l’Austria [14] che ne rimase poi esclusa per la costituzione della Repubblica Romana e l’occupazione francese.
Il primo marzo 1806, il rappresentante austriaco si trasferì al palazzo Hercolani (Oggi Grazioli) ed il solito Pasquino alla domanda di Marforio:
“che tempo fa Pasquino?”
rispose:
“Fa tempo da ladri”.
Quando nel 1808 l’amministrazione francese progettò lo sventramento di Roma, venne deliberata la demolizione del “viridario di S. Marco o Palazzetto” per costruirvi una piazza alberata. Una petizione di artisti a Napoleone scongiurò quel pericolo. Nel 1812, fu insediata, nel Palazzetto, l’Accademia delle Belle Arti con a capo Antonio Canova (1761-1822) che fu nominato Ispettore generale per le antichità e le belle arti dello Stato Pontificio, allora sotto il governo dell’impero napoleonico.
Il 20 aprile 1814, vi ritornò l’ambasciatore Austriaco che vi rimase fino al 1918, al termine della prima Guerra Mondiale. Gli ambasciatori susseguitisi fecero restauri che portarono alla chiusura dei portici del palazzetto e della loggia delle benedizioni sopra il portico della basilica, nella quale furono installate le cucine dell’ambasciata. Benito Mussolini fece restaurare i portici insieme al palazzo dove insediò il suo ufficio.
Nell’atrio della Basilica l’epigrafe della “Vannozza” :
D.O.M. Vanotiae Cathanae Caesare Valentiae Ioane Gandiae Jafre Doscylatii et Lucretiae Ferrariae Duabus Filiis Nobili Probitate insigni Religione eximia pari et aetate et Prudentia optime de Xenodochio lateranen., meritae Hieronymus Picus Fideicomiss. Procur. Ex testamento pos. Vixit ann. LXXVI. M. IIII. D. XVIII obiit anno MDXVIII XXVI Nov.
L’epigrafe, che si trovava sul sepolcro della Vannozza, fu tolta, secondo un Avviso del 2 aprile 1594, per ordine di Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini - 1592-1605): "Sua Beatitudine martedì nel visitare la Chiesa del Popolo ordinò che si levasse la sepoltura della Madre del Valentino". Chi sa come è finita a S. Marco l’epigrafe, ma della Vannozza nessuna traccia, né a S. Maria del Popolo, né altrove. Eppure quasi tutti i suoi averi furono ereditati dai poveri e la Congregazione di Carità di Roma ha, fra i ritratti dei suoi benefattori, quello della Vannozza.
A destra della Basilica sta un busto marmoreo colossale detto di Madama Lucrezia. Circa l’identità della statua [15], per la veste che in un modo caratteristico è annodata, si può riconoscere per una sacerdotessa d’Iside, ma, per il nome affibbiatole dal popolo, alcuni lo fanno derivare dalla Lucrezia Romana (Livio, Storia di Roma, Libro I, LVIII) , altri da Lucrezia Borgia ed altri ancora da una Lucrezia d’Alagno [16], abitante appunto nel soppresso vicolo di madama Lucrezia, il cui padre era stato senatore nel 1428.
Un’ultima tradizione, raccolta a Roma, nel 1826, da Prospero Merimée, dice che madama Lucrezia fosse “figlia dell’imperatore Alessandro e che attirava di nottetempo gli amanti nella sua casa e poi li faceva trucidare dai servi”. Finì, a seguito di una combinazione tragica, per impiccarsi e si dilettava, dopo morta, di passeggiare la notte per il suo vicolo e la sua casa.
Quello che è certo è che la sua statua, tra le altre parlanti (Pasquino; Marforio; il Babuino; la fontana del Facchino; e l’Abate Luigi [17]), fu la meno loquace e sopportò i belletti e le cianfrusaglie accollatele dal popolo e perfino, quando nel 1799 il popolaccio la fece cadere dal piedistallo in terra a bocca sotto, la statua parlante si limitò a dire: “Non ne posso veder più” (Pasquino). Madama Lucrezia, il 1° maggio di ogni anno, tutta infronzolata, con la faccia truccata di rosso e la testa coronata di aglio e cipolle, presiedeva al “ballo dei guitti” e le coppie che erano formate, oltre che dai giovani, anche da vecchi, da sciancati, da gobbi ecc., si inchinavano, fra rumori equivoci e sberleffi, con riverenza a madama Lucrezia.
Anche in altre occasioni veniva messa a contributo la statua: “lunedì 25 aprile 1701”, dice un diario, “fu sontuosissima musica nella chiesa di S. Marco, con gran concorso di popolo et avevano ornata la mezza statua, che sta a lato della facciata di detta chiesa, con cuffia e sciarpa alla moda e la sera si sparò un fuoco artificiale nella medesima piazza”.
Anche nei primi dell’800 si continuava ad ornare e tingere in rosso la statua che ebbe, dal padre Contuccio Contucci, gesuita, questo epigramma. ”Seu fuerim matrona potens, seu verius olim, Nobilis et Latiis una Deabus eram, Quae trunco rubeo Vultu Lucretia dicor, Nota pudicitiae nomine facta nurus, Gratulor: at tanto reddant cum nomine formam, Tarquinio placuit, qua prius illa Duci”. L’epigramma fa riferimento alla vicenda di Lucrezia, moglie di Collatino, che stuprata da Sesto Tarquinio, figlio del Superbo, si uccise per il disonore e si può tradure come: “Sia che fossi una potente matrona, sia che un tempo (come è più probabile) fossi una nobile divinità del Lazio, io che son detta Lucrezia, col tronco e col viso roseo, conosciuta per la fama di pudicizia e diventata nuora, vi sono grata: ma insieme con tanta fama mi restituiscano la bellezza per la quale allora piacqui al comandante Tarquinio”
Fu a piazza San Marco che, nel 1845, furono fatti in Roma i primi esperimenti di illuminazione a gas. Ma l’impianto entrò veramente in funzione il 1° gennaio 1854. Fino ad allora l’illuminazione era fatta in città con lumi davanti alle osterie ed alle immagini sacre [18]. Infatti, prima del 1875, esistevano a Roma 1421 tabernacoli e 1318 immagini di santi diversi. Da ciò l’ordine, durante la Sede Vacante, che ogni famiglia dovesse esporre una lampada sopra una delle finestre dell’abitazione [19].
A Piazza S. Marco, oggi completamente trasformata, facevano capo diverse strade. Quella che veniva dal Foro Traiano, e passava sotto il viadotto di Paolo III (Alessandro Farnese - 1534-1549) era detta, da un albergo, “Arco dei tre Re” [20] e terminava all’angolo di via della Pedacchia.. La via “Ripresa dei Barberi” (proveniente da Piazza Venezia) fiancheggiava il lato del Palazzetto opposto alla piazza; quasi di fronte alla Basilica, la via della Pedacchia [21] e, all’angolo della strada di San Marco, quella detta Macel de’ Corvi (detta volgarmente Via dei Mercanti). Davanti alla basilica un giardinetto circondato da cancellata dove sui viali imbrecciati “giocaveno li ragazzini”.
____________________
[1] Il “titulus Marci o in Pallacina” della IX regione ecclesiastica è stato, secondo il "Liber Pontificalis”, fondato dal pontefice Marco (gennaio 336-ottobre 336) che “fecit basilicam in urbe Roma iuxta Pallacinis” (dai “balnea Pallacinae” dove fu ucciso Sesto Roscio Amerino, come dall’orazione di Cicerone).
[2] ) Costantino donò: una patena d’argento di 30 libbre, due agnelli d’argento di 20 libbre, una coppa, tre calici, una corona d’argento di complessive 22 libbre, il fondo Antoniano, sulla via Claudia, che frutta “triginta solidos”, quello Vaccano, sull’Appia, di “solidos quadraginta et tremissios duos”, “Orrea ardeatina di quinquagintaquinque et tremisium unum”. Per la costruzione, papa Marco si servì di murature più antiche.
[3] ) É stato recentemente scoperto che prima di raggiungere il livello del “titulus Marci” si dové traversare un altro piano pavimentale che ricopriva lo strato di macerie carbonizzate, segno evidente che la chiesa primitiva, distrutta da un incendio, era stata ricostruita “ex novo” da un altro pontefice, forse Sisto III (432-440).
[4] ) Furono probabilmente adoperati i blocchi del recinto Serviano allora affiorati ai piedi del Campidoglio.
[5] ) Dopo il martirio sofferto sotto Decio (249-251), i loro corpi furono tenuti, per tre giorni, sui gradini della statua, già di Nerone (il Colosso), al Colosseo.
[6] ) La chiesa di “Santa Maria degli Angeli” (quartiere alessandrino) ricevette, nel 1145, le reliquie di San Marco, le quali vi restarono fino al 1154, quando furono trasferite nella basilica di San Marco. La chiesa di “Santa Maria degli Angeli” era nel Forum Transitorio e fu detta più tardi “in Macello Martirum”, dal “fundicus, macellarum de Arca Nohe", cioè di un mercato i cui banchi si annidavano fra le Colonnacce del Foro di Nerva. Fu anche detta "de arcu aureo” e Sant’Agata dei Tessitori". Fu demolita, nel 1932, per creare lo sbocco di via Cavour, sui Via dei Fori Imperiali.
[7] ) Capsula per reliquie d’altare: Vaso per contenere le reliquie.
[8] ) Le “Robigalia” prendevano il nome dal dio Robigo, cui si sacrificava presso i seminati per scamparli dalla ruggine: “Feriae Robigo, via Claudia ad milliarum V (quintum), ne Robigo frumintis noceat. Sacrificium et ludi cursoribus maioribus minoribusque fiunt”. La processione, per ottenere dagli Dei il patrocinio sulle messi crescenti, usciva dalla porta Flaminia, traversava il Tevere sul ponte Milvio e passava nella via Claudia, dov’era, al 5° miglio, un boschetto dedicato a “Robigo” dio della brina. Vi si faceva una fermata ed il flamen “Quirinalis" offriva alla “Canicula” un cane rossigno ed una pecora e la cerimonia si concludeva con corse pedestri.
[9] ) Viridario: Nell’antica Roma, il giardino delle case patrizie.
[10] ) La torre fu abbattuta , nel 1888, per la costruzione del Vittoriano. I lavori per la costruzione della Torre erano cominciati nel 1546 ed era usata dai papi come difesa, al pari di Castel Sant’Angelo rispetto al Vaticano.
[11] ) Avviso del 1564: “l’ambasciatore della Serenissima andò ad alloggiare al palazzo San Marco, trasferendosi dal palazzo Nardini, a S. Lorenzo in Lucina”.
[12] In quella occasione, fu alzato uno steccato attorno al palazzetto, per evitare disturbi di rumori al moribondo, Pasquino interpellato da Madama Lucrezia da dove fosse potuta entrare la morte, rispose: “Mors intravit per cancellos...”
[13] ) In data 6 novembre 1700, in un manoscritto (789) della biblioteca Vittorio Emanuele è detto: “Domenica dopo pranzo, l’ambasciatore di Venezia si divertì con una caccia de tori fatta nel gran cortile del suo palazzo, con intervento di dame, prelati e cavalieri, e riuscì di approvazione".
[14] ) Quando il palazzo passò all’Austria, sul muro presso l’angolo di via del Plebiscito fu apposta una tabella marmorea con iscrizione che rammentava come la piazza, nella misura di 80,10 m. per 30,29 m., fosse di pertinenza di quella nazione.
[15]) La statua venne alla luce nel ‘400 durante gli scavi per le fondazioni di palazzo Venezia.
[16] ) Lucrezia d’Alagno era la favorita di Alfonso I (1442-1458) d’Aragona, detto il “Magnanimo”, che l’avrebbe sposata, se papa Calisto III (Alonso de Borgia - 1455-1458) gli avesse accordato il divorzio da Maria di Castiglia. Alla morte di Alfonso I, Lucrezia ritornò nella sua casa a Roma, dove moriva improvvisamente (1478) nella chiesa della Minerva dove verrà sepolta.
[17] ) Statua togata senatoria rinvenuta nello scavare le fondamenta del palazzo Vidoni, cui fu addossata nel lato sud, in un vicolo al quale dava il nome che a sua volta aveva assunto da uno dei cappellani della chiesa del Sudario. Distrutto il vicolo per l’ampiamento della piazza, la statua fu trasportata nell’interno del palazzo e da qui collocata poi alle mura della Chiesa di S. Andrea della Valle.
[18] ) Per la novena di Natale suonavano, davanti a queste immagini, i pifferai. Essi indossavano un frusto mantello turchino, corpetto di cuoio, pelli intorno alle gambe e ciocie ai piedi, cappello di feltro a cencio o a cono dove erano cucite, insieme con qualche nastro svolazzante, immagini devote. Due di loro suonavano la cornamusa, il più giovane suonava il piffero, l’altro una specie di fistola arcadica. Venivano chiamati dai proprietari delle immagini e compensati da essi e dai vicini che si godevano la musica dalle finestre. (“Sai quanto guadagna con un giro a Roma? La bellezza di 700 Paoli!!”).
[19] ) La prima lampada ad arco apparve sul corso nel 1885. Le carrozze avanzavano a passo d’uomo, precedute da un servo a piedi, con fiaccola accesa in mano. I pedoni con lanterne si garantivano l’incognito gridando al contrapposto passeggero: “Volta la lanterna”.
[20] ) Paolo III (Alessandro Farnese - 1534-1549) aveva congiunto il Palazzo Venezia con il palazzo-torre, situata al posto dell’attuale Vittoriano. L’arco, del passetto, che passava sopra la Via di San Marco, all’altezza del Viridarium, era detto dei Tre Re, per via di un ristorante-albergo di quel nome.
[21] ) La via prendeva nome dalla casa della nobile famiglia Pedacchia, imparentata con gli Infessura “La di cui sepoltura sta a S. Maria in via Lata”. I Petacchia furono i moderatori (guardiani) dell’orologio della chiesa di S. Maria in Aracoeli fino al 1673, quando furono sostituiti dai Ciogni. L’orologio, nel 1412, era situato a sinistra dell’ingresso principale della chiesa dell’Ara Coeli e, alla fine del primo quarto del sec. XVIII, collocato nel centro, finché nel 1806 cominciò a funzionare quello della torre capitolina. Fu solo nel 1846 che gli orologi pubblici di Roma vennero modificati alla francese.
|