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Piazza di Porta Maggiore (R. XV – Esquilino) (vi convergono: via Prenestina, via Casilina, via Eleniana, via Germano Sommeiller, via Statilia, via di Porta Maggiore, via Giovanni Giolitti, viale dello Scalo di San Lorenzo)
La Porta Maggiore, dai cui doppi fornici uscivano la Labicana e la Prenestina e sulla quale passavano le acque Claudia, Marcia, Tepula, Giulia e Aniene nuova, con le iscrizioni di Claudio, Vespasiano e Tito, è nel luogo detto "ad spem Veterem" dal celebre antico santuario, ricordato da Dionigi di Alicarnasso (29 a.C.) in proposito della guerra etrusca del 476 a.C.
La porta originaria fu trasformata da Onorio (395-423) e rimase così finché nel 1838, per mettere alla luce il sepolcro del fornaio Marco Vergilio Eurisace, rimasto incorporato in una delle torri onoriane, venne liberata dalle costruzioni che la nascondevano.
Ebbe nome: Prenestina, Sessoriana [1]; ma già nel secolo X appare "Porta Maior" mentre nel XII è detta "Lavicana" e "Maior".
A Porta Maggiore, nel 1327 i Romani si batterono contro i Guelfi di Carlo d'Angiò, nel 1436 i baroni romani, ribelli a Eugenio IV (Gabriele Condulmer - 1431-1447), si impadronirono della porta, ma ne furono ricacciati dopo tre giorni da Everso d'Anguillara, nel 1484. Vi si confrontarono i Colonnesi e i partigiani di Sisto IV (Francesco Della Rovere - 1471-1484) per liberare Lorenzo Colonna, che per il ritardo nel soccorso, fu torturato e decapitato.
Il sepolcro [2] messo in luce, nel 1838, a sinistra di chi esce dalla porta è quello alzato da Marco Virgilio Eurisace, liberto della “gens Vergilia”, per sé e per la moglie Atistia. Di forma trapezoidale ed anteriore all'acquedotto stesso, questo monumento, dell'età repubblicana, reca incisa l'iscrizione: “Est hoc monimentum Marcei Vergilei Eurysacis Pistoris ac Redemptoris apparetorum” (Questo sepolcro appartiene a Marco Virgilio Eurisace, fornaio, appaltatore, apparitore). Nel fregio è riprodotta tutta l'attività del fornaio, dalla conclusione di un contratto di fornitura di pane, fino alla pesatura di esso, avanti al “praefectus annonae” [3].
Il sepolcro, chiamato dallo stesso Eurisace “panarium”, è ornato di cilindri che spalancano all'esterno le loro grandi bocche vuote e rappresentano quei mortai con i quali, mediante uno stantuffo di legno, azionato a mano, si impastava il pane.
Più in alto, come detto, corre un fregio scolpito con le numerose fasi della panificazione: cernitura e molitura del frumento, manipolazione della pasta, confezione delle forme del pane. Nel panarium, ossia madia, erano le ceneri di Atistia ed Eurisace.
A pochi passi dalla porta Maggiore, a sinistra, in via Prenestina, è una basilica sotterranea scoperta nell'aprile 1917.
La Basilica, allora, era candida nelle sue tre navate e nell'abside con gli stucchi intatti, quasi fossero stati modellati il giorno innanzi.
Chiusi da secoli il corridoio d'accesso e le aperture, che avrebbero dovuto dar aria, se non luce, all'edificio, il vuoto stesso aveva impedito le infiltrazioni di acqua.
Le sue forme architettoniche erano proprie di una chiesa cristiana; un atrio, tre navate divise da due file di tre pilastri e un’abside.
Ma era stata costruita da Pagani, nel I secolo dell'impero, forse al tempo di Claudio (41-54). Collocata a tre metri sotto il suolo di allora, scavando il tufo per aprire i vani e girare le volte e ricavare i pilastri, aveva su questi e sulle pareti magnifici stucchi.
La destinazione di un così fatto edificio, che sembra saccheggiato e chiuso alla vista e alle ricerche degli uomini, ha creato parecchie ipotesi, tanto per essere stato costruito sotto terra per nasconderlo, quanto per essere stato abbandonato prima di averlo compiuto.
Il fatto che esso è costruito molto prossimo agli horti Tauriani, fa pensare all'accusa che portò al suicidio il Senatore Statilio Tauro e ad un culto orientale proibito dall'imperatore.
Misteri orfici? [4] Seguaci della dottrina neo-pitagorica? [5].
I neo-pitagorici si ispirarono principalmente alla religione della quale fu predicatore Pitagora, nativo di Samo, ma vissuto in Crotone verso la fine del VI secolo a.C., dove fece numerosi proseliti.
Pitagora (570 a.C.) poneva come base delle sue teorie il numero dell'armonia; tutto il mondo è retto dal contrasto tra la luce e le tenebre, fra l’illimitato e il limitato, fra il maschile e il femminile, fra il pari e il dispari. Principi regolati dall’Unità Divina, cui fanno capo tutte le leggi della natura.
L'immortalità dell'anima, l'amore della vita austera e spirituale, gli studi di matematica, di fisica, di astronomia, non disgiunti da pratiche astrologiche ed escatologiche, erano la prassi anche dei neo pitagorici.
E che ad essi appartenesse la basilica sotterranea, è l'ipotesi che sembra avvalorata dall’interpretazione data ai quadri della basilica stessa, che non portando né avanzi di restauri, né segno di lungo uso, fa pensare ad una repressione violenta dei suoi cultori avvenuta da parte degli imperatori.
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[1] Dal fondo Sessorianum che si estendeva dalla città fino alla villa di Cesare "ad statuas" (S. Cesario) e il cui palazzo fu in parte trasformato nella chiesa convento di Santa Croce.
[2] Fra i più antichi sepolcri rinvenuti nella zona, ad un centinaio di metri prima della porta Maggiore, nel viale Principe Eugenio, quegli degli Arrunzi e degli Statilii. Il primo edificato da L. Arruntius che fu console nel 6 d.C. e che nel 37 si uccise per un'accusa infamante, per custodire le sue ceneri e quelle dei familiari e dipendenti. Il secondo degli Statilii, scoperto tra viale Piazza Margherita e via Principe Eugenio, insieme con un altro colombario di forma simile. L’uno adibito ai discendenti di T.Statilio Tauro, console 37 e 26 a.C. amico di Ottaviano e chiamato ”adiutor imperi”. Famiglia che si imparentò poi coi Claudi per mezzo di Messalina (+ 48 d.C.). L'altro colombario, con oltre 700 loculi, dimostra attraverso le sue iscrizioni quale fosse l'organizzazione della ricchissima famiglia, distrutta da Claudio (41-54). Structores (Muratori), Fabri tignarii (falegnami), coloratores (decoratori), scalpellini (marmorarii), topiarii (giardinieri), horrearii (magazzinieri) ecc. e perfino medici, ostetriche, segretari, bibliotecari ecc. Ambedue i sepolcri sono stati rinterrati interi, mentre gli altri esistenti sotto le case sono andati distrutti. Come i due suddetti, resta sul piazzale di Piazza Maggiore ed è visibile un colombario appartenente a più famiglie. Costituito da N. Pathacius Maximus il quale “hoc monimentum sive sepulcrum comparavit......sibi et suis libertis libertabusque posteris q. earum” : ma dalle lapidi ritrovate si può arguire che ritenendone solo una parte per sé, abbia poi rivenduto gli altri loculi a privati diversi.
[3] Sino al 174 a.C. Roma non conobbe forni pubblici: il frumento era macinato dagli schiavi e il pane lavorato dalle donne. Vennero in seguito i “pistrina”, pubblici stabilimenti dove si triturava il grano mediante mole costituite da una “mèta” fissa e un “catillus” girevole a forma di doppio cono. Alle “mole versatiles” si adibivano schiavi di preferenza ciechi; per quelle “iumentariae” e “asinariae”, muli e somari muniti di para-occhi di cuoio. Subentravano infine i “pistores” che cuocevano e confezionavano il pane che vendevano, erigendo davanti ai propri forni alte mostre di legno a gradinate sulle quali disponevano le diverse forme. Naturalmente, col tempo, le cose mutarono e nel Medio Evo troviamo la potente Università dei Padroni Molinari, che, nel 1490, si diede leggi statutarie. Suo patrono fu San Paolino vescovo di Nola a cui l´Università eresse una cappella nella basilica di San Bartolomeo, sull’Isola Tiberina. La confraternita passò poi nella chiesa di Santa Maria dell'Orto, con l'altra che le si affiancava dei Giovani de’ Molinari, ed ambedue esercitando l'industria loro anche a mezzo delle “mole” galleggianti sul Tevere. Di questi grevi natanti, costruiti in forma di grandi capanne di legno, sormontate dalla croce ed assicurati con grandi catene ai piloni dei ponti, ve n’erano, nel 1744, ancora 25 nel solo tratto urbano. Nel XIX secolo, ultime mole a scomparire furono quelle di S. Nicola e Sant'Agostino (tutte erano sotto il patronato di un santo), appartenenti ai duchi Grazioli, ed erano collocate verso la strada del Muro Nuovo (oggi via Gustavo Modena), presso S. Crisogono. I panettieri nel XVI secolo installarono il loro consolato in Campidoglio ed adattarono come stemma quattro pani tondi entro una corona di lavanda e di spighe. Accanto alla chiesa di Loreto fabbricarono pure un ospedale nel 1550, “ove ricevono ogni sorta di infermi di febbre e feriti d’ogni nazione e in particolare i poveri garzoni e lavoratori dei fornai, da’ quali sono giornalmente sovvenuti di continue limosine e assistiti con molta carità, per cui servizio tengono provvisionato medico e altri ministri necessari per la loro cura”. I fornai, poi, delle altre nazioni avevano istituti a parte, così come quelli della Nazione Fiorentina che avevano “mole” proprie sul Tevere e la loro Università con proprio ospedale, attigua alla loro chiesa nazionale in via Giulia. Più numerosi i fiamminghi, gli svizzeri e soprattutto i tedeschi che possedevano vicino a Sant’Andrea della Valle la chiesa di Sant'Elisabetta le cui statue sono oggi nel Camposanto Teutonico, dove si possono leggere molte vetuste epigrafi dei “sodales”. Di uno di essi, fornaio Giovanni Gentner esiste a Santo Stefano Rotondo un macchinoso tabernacolo scolpito in legno. La gerarchia dell'industria panettiera era formata dal Ministro, Sottoministro, Infornatore, Impastatore, Aiuto, Cascherino e dal ragazzo. Le forme che hanno preceduto gli attuali sfilatini, viennesi, all'olio ecc., erano “i parigini”, “i semmolini”, “le pagnotte” a ferratelle e quelle buccate, “i cuscinetti” e “i pizzardoni”, “il ciammellone” co’ l'anici, a treccia, e “la gionta der fornaro” che bilanciava esattamente ogni peso deficiente. Era poi tradizionale che “pe’ le feste” il fornaro elargisse un chilo de’ pasta alle “mejo poste”. Di forni vetusti si ricorda quello, forse ipotetico, di Margherita Lui, la fornarina, “la bella fra le belle, ch’aveva dat’er colore a Raffaelle”, posto in via Santa Dorotea; l'altro a via Due Macelli con 24 pagnotte in pietra che ornavano la cornice dell'ingresso, ed aveva murato, accanto alla porta, un anello di ferro, dove l'alabardiere, che in tempo di carestia vigilava l’esercizio, infilava la “libbarda” quand'era stanco di passeggiarvi davanti (è stato demolito nel 1925). Oppure, il più antico di tutti, quello che ha dato il nome al vicolo del Forno a Trevi (Vedi) dal quale, sullo scorcio del XVII secolo uscirono i primi chiffel (chifeni) impastati con fiori di farina e burro, rievocanti nella forma della vinta mezzaluna all'assedio di Vienna (1683). Affine all'Università dei Padroni Molinari e dei Giovani dei Molinari era l'Università delle Artibianche, Orzaroli e Nevaroli, unita nel 1601 a quella dei Mercanti di fondaco, dalla quale si separò nel 1749 e che risiedeva in San Sebastiano dell’Olmo. La prima categoria (Artibianche) esitava pane e paste alimentari, la terza (Nevaroli) smerciava la neve raccolta d’inverno e conservata in appositi pozzi nei pressi dell’urbe e la seconda (Orzaroli, detti, per la loro origine dalla Lombardia e Valtellina in prossimità dei Grigioni, “Grici”), vendevano di tutto, dai commestibili agli oggetti d'uso domestico e personale e persino zaganelle (nastri, fettucce). Un bando dei Conservatori, il 15 ottobre 1602, impone loro questa tariffa: Pane bianco, ben cotto e condizionato, once 7, bajocchi 1; lasagne al vento, la libbra bajocchi 3 quattrini 4; Vermicelli gialli, idem, bajocchi 3 quattrini 4; Vermicelli e Tagliolini bianchi, baiocchi 3 e quattrini 2, Maccheroni bianchi e delli più belli baiocchi 3 quattrini 2; ecc., sotto pena di scudi 25 e 3 tratti di corda, e poi di berlina, frusta e galera “inviolabilmente senza alcuna remissione”. I Pastarellari (pasta all'uovo) avevano in un angolo della bottega una tavola a quarto di cerchio fra due muri e poggiata su solida base. A portata di mano tenevano, anch'essa assicurata al muro, una enorme stanga di legno. Quando il pastarellaro aveva distesa la pasta sulla tavola, con quella stanga, poggiata alla sua regione glutea, si avanzava e si sedeva, 100 e 100 volte finché la pasta non avesse raggiunto il voluto spessore. Ciò che era poi una bella “faticata”. Altra categoria i Pasticceri, costituitisi in Università nel 1513, ebbero come protettore San Calcedonio, e la chiesa dei SS. Vincenzo ed Anastasio alla Regola, abbattuta nel 1886 per la costruzione dei Lungotevere. Fabbricavano pastarelle, bocconotti, straccaganasse, mostaccioli, amaretti, pizze dolci, quelle ricresciute, a la mulinara, e co’ li sfrizzoli. Affini erano i “ciammellari” che portavano in giro le “ciammelle” infilate in un lungo bastone. Di uno di essi, ce n'è ancora il ricordo: esercitò il mestiere in piazza San Pietro venti o trent'anni di seguito, senza che mai gli venisse la curiosità d’entrare a visitare la basilica. É appunto il suo ricordo che ha creato il modo di dire: “fa come il ciambellano” che equivale a trascurare qualche cosa che sarebbe comoda a farsi.
[4] Pensiero centrale dell’Orfismo: che l’uomo è un miscuglio di bene e di male, che l’anima è un raggio di luce divina nelle tenebre della materia e che tutto il dovere dell’uomo consiste nel procurarsi la gnosi, la dottrina vera, che gli insegna insieme la realtà di questa sua situazione e gli addita la via della liberazione. L’anima dunque per gli Orfici è di origine divina ed il corpo è una tomba (Ϭώμα - ϭήμα) in cui essa è precipitata, in seguito a una colpa primordiale. Per risalire alla sede beata, l’anima deve espiare. Questa espiazione si può compiere in due modi: con la metamorfosi, cioè in una successione di vite o con la purificazione nell’Ade, luogo di terrori e delizie, dove l’anima scende dopo la morte, ma non vi trova la sua gioia, perché il suo unico gaudio è di riunirsi al suo principio che è Zagreo, nome che Dioniso, figlio di Zeus e Persefone, riceve nell’Orfismo.
[5] Scuola filosofica e religiosa fiorita in Alessandria contemporaneamente al giudaismo, col quale prepara il neo-platonismo di Plotino (+ 270 d.C.); era basata sul dualismo assoluto tra il divino e l'umano, sulla trascendenza di Dio, sulla concezione di forze spirituali mediatrici fra Dio e il mondo, sulla fede di una rivelazione superiore alla ragione umana. S’ispirò alle dottrine pitagoriche, ebbe per suo rappresentante Apollonio Tianeo (I sec.).
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