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Tenendo conto che negli scavi effettuati presso l’altare maggiore della chiesa di Sant’Omobono sono stati scoperti alcuni resti di una pavimentazione databile tra la fine del V secolo e gli inizi del VI, ci si può legittimamente chiedere la ragione dell’assenza di citazioni della chiesa dal V-VI secolo fino al 1470. Infatti, con il nome di “San Salvatore in Portico”, la chiesa non è citata in nessuno dei cataloghi di Cencio Camerario (1192) o di quello dell’anonimo di Torino (c.1320) o di altri documenti noti. La questione, ancora controversa, troverebbe una soluzione plausibile nell’attribuire, per quel lungo periodo, una doppia dedica alla chiesa (per ipotesi alla Madonna e al Salvatore), di cui una abbia prevalso nel primo periodo (V sec.-1470) e l’altra nel secondo periodo (dopo il 1470). Le origini della nostra chiesa si possono, dunque, far risalire al momento di passaggio tra il V e il VI secolo, ma come si sia chiamata, prima del 1470, resta una cosa da appurare. La chiesa di Sant’Omobono è fondata sopra il Tempio di Mater Matuta che, insieme a quello della Dea Fortuna, campeggiava sulla zona del porto fluviale, già dal VI secolo a.Ch., attorniato da magazzini e botteghe tipiche di una zona commerciale legata al porto. La chiesa subì un restauro, tra il XII e il XIII secolo, sulla base dei reperti di pavimentazione cosmatesca ritrovata negli scavi. Stefano Satro, responsabile dell’ospedale di Santa Maria in Portico, finanziò, nel 1482, la ricostruzione della chiesa (ce lo dice il testo della sua tomba, che è nella chiesa), ad opera dell’architetto Lorenzo Lini. La chiesa è a navata unica absidata, con campanile sul lato orientale della chiesa (questo sarà utilizzato, in seguito, come abitazione e demolito, nel 1937, insieme ad un altro, a vela, sul lato destro della facciata, che aveva sostituito il primo). Nel 1574, Gregorio XIII (Ugo Boncompagni - 1572-1585) cedette la chiesa in enfiteusi perpetua alla Confraternita dei Sarti (che la possiede tuttora), dietro il pagamento di 20 scudi e di 20 libre di cera annui. La Confraternita dei Sarti dedicò la chiesa a Sant’Omobono (Santo protettore dei Sarti) e la restaurò nel 1616, con il contributo del sarto Salvatore Lorenzo Lini e nel 1767 a sue spese. Alla fine degli anni ’30, il regime fascista, dopo aver “liberato” il colle Capitolino da tutte le costruzioni medievali che lo occupavano, aveva realizzato la costruzione della “via del Mare” (via del teatro di Marcello), fino alla chiesa di San Nicola in Carcere che aveva unito, poco dopo, con la via di Santa Maria in Cosmedin (Via Petroselli e Piazza della Bocca della Verità). Ai lati di questo nuovo asse stradale il Regime realizzò il palazzo del Governatorato (Palazzo dell’Anagrafe), da un lato, ed aveva intenzione di costruirne uno gemello, dall’altro. Durante lo scavo delle fondazioni di questo secondo palazzo, cominciò a venire alla luce la zona archeologica di Sant’Onofrio ed i lavori vennero interrotti. La chiesa era ancora intatta a meno dei due campanili di cui abbiamo parlato, e degli attigui locali, sede della confraternita dei Sarti che erano stati demoliti, unitamente a tutto lo strato medievale della zona. Il regime era stato sensibile solo allo spuntare degli elementi archeologici della Roma Imperiale! La chiesa rimase così isolata, come la vediamo oggi, ed ha, in seguito, rischiato la demolizione per permettere la scoperta del Tempio di Matuta sul quale poggia. Nella sistemazione della zona, le mura laterali (IX sec.) della chiesa furono rivestite in cortina laterizia. La Confraternita dei Sarti, privata della sua antica sede, si è trasferita altrove (Via Francesco Crispi, 115), ma è ancora proprietaria della chiesa e se ne serve per le sue cerimonie devozionali.
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