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Piazza (ex Via) Bocca della Verità (R. XII – Ripa) (vi convergono: via del Velabro, via di San Giovanni Decollato, via Luigi Petroselli, via di Santa Maria in Cosmedin, via della Greca, via dei Cerchi)
Ha avuto il nome da quel mascherone , antico tombino di fogna romana, che era addossato al muro esterno di S. Maria in Cosmedin, e che dal 1632 fu trasportato nel portico della basilica. Si vuole che fosse l’imboccatura di una fogna, non stradale, del Tempio d’Ercole Vincitore, anche per i “vari simboli di ex voto scolpiti o in cavo o in rilievo attorno alla faccia principale”.
Alla Bocca l’attributo Verità venne da una leggenda medioevale, che partendo dal concetto che il poeta Virgilio fosse un mago ed un maliardo, diceva come questi avesse fatturato il mascherone in modo che chi, ponendo la sua mano nella bocca che forava il tombino, pronunziasse un giuramento falso, ne avrebbe avuta stroncata la mano. Anzi, per precisione, tale trappola era stata escogitata da Virgilio per le donne infedeli, ed infatti uno scritto del sec. XIV era intestato “Di una effige in Roma che strappava coi denti, le dita alle donne adultere”. La leggenda proseguiva “narrando come il poeta avesse fatto male i suoi conti prendendosela con le donne. Infatti una tale che aveva una relazione illecita e che dal marito era indotta a fare il pericoloso giuramento, si preparò così la salvezza". Accordò il suo complice di fingersi pazzo ed, in quel giorno, incontrandola nei pressi del mascherone l’abbracciasse a forza. Eseguito l’atto alla presenza del marito e della gente che lo credeva un pazzo, lei, mostrandosi sdegnata per il gesto subito, giurò che nessun uomo l’aveva mai abbracciata all’infuori del marito e di quel povero matto.[1] Ancora nel 1517 scriveva fra Giocondo (1475-1515) (Giovanni Monsignori) domenicano: “Is (il mascherone) magica arte dum quis incusatus ut suam patefaceret innocentiam veniebat”.
La sua sede fu, come spesso avvenne per le diaconie[2], stabilita in edifici pubblici dell´età romana. Così Santa Maria in Cosmedin è penetrata in parte nella cella del tempio di Cerere[3] e con l’abside e l’altare della chiesa in parte della "statio annone".
I 2 templi scoperti al Santo Omobono (vico Iugarius), di antichissima fondazione e di fattura gemella, se il Foro Boario si estendeva fino al "vicus Iugarius", sarebbero quelli della Mater Matuta e della Fortuna, la cui sorte è stata sempre legata, quasi a farne un santuario solo. Infatti ambedue vengono attribuiti a Servio Tullio (578-534 a.C.) che alla dea Fortuna attribuì il merito di essere, da schiavo, diventato re.
La dea Matuta era venerata particolarmente dalle donne, che nelle feste dette "Matralia" che si celebravano l'11 giugno durante le "Vestalia" per l'annuale della dedicazione del suo tempio, portavano in braccio i nipoti in luogo dei figli, perché Leucotea (identificazione della dea Matuta), aveva allevato Dionisio, figlio di sua sorella Semele. L’offerta era una rustica focaccia. Altro rito era condurre una serva nel tempio (al foro boario), percuoterla e cacciarla fuori. Anche l'11 giugno si festeggiava la dea Fortuna nel suo tempio al Foro.
Ma se il Foro Boario non aveva la suddetta estensione, i templi sarebbero i due superstiti in piazza Bocca della Verità: quello rotondo, che fu trasformato nella chiesa di Santo Stefano delle Carrozze e l'altro rettangolare in quella di Santa Maria Egiziaca. In questo tempio Tiberio Sempronio Gracco avrebbe posto questa epigrafe: “Tib. Semproni Gracchi consulis imperio auspicioque legio exercitusque populi Romani Sardiniam subegit. in ea provincia hostium caesa, aut capta supra octoginta milia. republica felicissime gesta atque liberatis Vectigalibus restitutis, exercitum salvum atque incolumem plenissimum praeda domum reportavit; iterum triumphans in urbem Romam redit. cuius rei ergo hanc tabulam donum Iovi dedit”.
Il tempio della Fortuna al Tempio del Forum Boario, ch’è da alcuni attribuito alla "Fortuna virile" e secondo altri a “Giove ed al Sole"[4], per una lapide che si dice rinnovata dal cardinale Giulio Santorio, sembra invece agli archeologi moderni debba identificarsi con quello di "Portunus" o "Portumnus". L'epigrafe, secondo il Santorio diceva: “Hoc dudum fuerat fanum per tempora prisca Constructum Phoebo mortiferoque Iovi"; ma nessuna attendibilità è data a questa notizia.
Così per la dedicazione alla "Fortuna virile"; dice Giuseppe Lugli che un tempio a questa dea è ricordato da Plutarco (50-120), e dai Fasti Prenestini[5] al primo di aprile e attribuito a Servio Tullio (578-534 a.C.). È dubbio però se si tratti di un tempio indipendente, o non piuttosto di uno di quelli già noti; infatti il nome non è che una cattiva interpretazione fatta dagli stessi antichi di "Sors" o "Fors Fortuna" che vuol dire la stessa cosa, e non ha nulla a che vedere con forte e virile. L'attribuzione alla dea Fortuna del tempio rettangolare, tetrastilo e pseudo-periptero, di severo ordine ionico, è un arbitrio della scienza antiquaria del secolo scorso, privo di qualsiasi fondamento.
L'archeologo Lugli dunque crede fermamente, e con lui altri, che il tempio della Fortuna sia uno dei due che sono stati recentemente ritrovati a Sant’Omobono, mentre l'altro l’identificherebbe con quello della dea Matuta.
Invece che alla "Fortuna”, il tempio rettangolare, lo dice dedicato a "Portunnus", divinità protettrice del porto Tiberino, introdotta in Roma dopo la conquista di Ostia[6] (358 a.C.) e dopo la formazione di una flotta commerciale romana, che faceva scalo al porto civile. Era posto a nord dei Navalia[7], lungo il Tevere, dove avveniva lo scarico delle merci destinate ai prossimi mercati e a proteggerlo era stato appunto fondato il tempio di Portunus.
Il 17 di agosto vi si celebravano in suo onore le "Portumnalia" intitolate a questo "Deus portuum portarumque praeses" e come dice Festus (II sec. d.C.) "Portum frequenter maiores pro domo posuerunt". In quelle feste si vedevano corone di fiori freschi nel "Portunium", così chiamata la piazza di fronte al tempio presso il ponte Emiliano.
Sotto Giovanni VIII (872-882), romano, che fu il primo ad assumere il titolo di Papa[8], dal secundicerius Stefano, fu dedicato il Tempio a Maria Vergine e secondo un censuale vaticano del 1403 e nel catalogo del Camerario (Cencio Savelli, XI-XIII sec.) è chiamata "Santa Maria Secundiceri". Aveva questo attributo perché vicino ad essa era una delle residenze del "Secundicerius" che era il secondo dei sette personaggi della corte papale del secolo VIII[9].
Pasquale II (1099-118) per sfuggire al gioco delle fazioni ed ai seguaci dell'antipapa Bordino, si ritirò nelle vicinanze di questa Chiesa, i cui dintorni erano validamente difesi dai serragli e dai fortilizi turriti di Stefano Normanno, di suo fratello Pandolfo, di Pietro Latro, dei Corsi.
Pio V (1566-72) la concedette nel 1571 "alla nazione armena", che aveva dovuto abbandonare l'altra concessale da Pio IV (1559-65) a ponte quattrocapi, perché demolita per l'ingrandimento del ghetto[10].
Al possesso degli Armeni, la chiesa di Santa Maria Secundicerii fu dedicata a Santa Maria Egiziaca ed, in un locale annesso, funzionò uno spedale per i pellegrini armeni che venivano a visitare Roma. Fu restaurato insieme alla chiesa da Clemente XI (1700-21) e a destra, uscendo, vi fu poi messo il modello della cappella del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che il giovedì santo richiamava un'infinità di persone per la visita di rito. La chiesa fu profanata nel 1924 per i lavori di ripristino, effettuati da Muñoz che riportò il tempio all'antico livello, con la gradinata di accesso, liberando il portico, la cella dalle chiusure posteriori e la favissa[11].
Nel 1930, abbattuto l'annesso edificio, sul fianco orientale del tempio, apparvero le tracce di alcune taberne, consistenti nei resti di pareti tufacee, che si avvicinavano al piccolo edificio, circondato da un pavimento lastricato.
Altro dubbio che sorge, è quello se "Fortuna in Forum Boario”, sia la stessa cosa della "Fortuna Seiani". Infatti è risaputo che fino al tempo di Plinio (23-79), nell'interno del tempio si custodiva un simulacro antichissimo della dea, in legno dorato[12], che era sopravvissuto all'incendio gallico del 390 a.C. ed a un altro nel 213 (dopo Canne (216)). Ora questo simulacro, che era stato ammantato con due toghe portate da Servio Tullio[13], sembra che sotto Nerone fosse trasportata nella villa di Seiano Lucio Elio, dove le fu eretto un tempio con la pietra durissima di Cappadoccia.
Ci dice Plinio che alla morte di Seiano, ucciso da Tiberio nel 31 d.C., bruciarono le due toghe della statua, ma non da notizia né della statua, né del tempio, quindi ci resta ignoto e la fine del simulacro e se questo fosse lo stesso che era adorato nel foro Boario.
Il Tempio di Matuta al Forum Boario è vittima, ancora una volta di una dubbia interpretazione sulla divinità titolare del tempio: "Questo elegantissimo tempio romano, detto volgarmente di Vesta, è costruito in marmo lunense, ed è circondato da 20 colonne scanalate dello stesso marmo, d'ordine corinzio[14]. Può ritenersi opera d'artefice greco, ma s’ignora a quale divinità fosse consacrato; il nome Volgare di Vesta è fondato solamente sulla sua forma circolare, perché il tempio di Vesta sorgeva nel Foro Romano, ove se ne veggono di avanzi. Alcuni opinano fosse l’ "aedes rotunda Herculis” ricordata da Tito Livio, ma più probabile ed accreditata è l'opinione che debba riconoscervisi il tempio di Cibele". “Nel XII secolo dai Savelli, che avevano poco lontano, sull’Aventino[15], il loro castello[16], fu trasformato in chiesa e dedicato a Santo Stefano. Si chiamò prima delle Carrozze, dalla vicina omonima strada che in linea retta conduceva dietro Santa Galla, ed è chiamata dall'anonimo di Torino (XIV sec.) e da Cencio Camerario (XII-XIII sec.), Santo Stefano Rotondo che distinguono quello del Macellum Magnum coll'appellativo di “Santo Stefano in Coelio monte". (Armellini).
Cambiò il titolo in quello di “Santa Maria del Sole" quando, secondo il Bruzio (XVII sec.), "l'anno 1560, in quelle adiacenze viveva donna Giromina Latini, vecchia di 115 anni che a Dio aveva la sua verginità dedicata[17]. Il fratello di lei, passando sul Tevere vide galleggiare un'immagine della vergine dipinta in papiro e la prese e la dette alla sorella che fra le gemme del suo scrigno la chiuse. Dopo alcuni giorni, nell'entrare in camera, vide l'immagine risplendente come il sole e così cinta di raggi”.
Tutta Roma corse alla fama del prodigio, e dal miracolo fu detta Vergine del Sole, cambiandosi in edicola l'atrio di quella casa. Poi l’arciconfraternita della Santa Croce presso S. Marcello trasferì nel suo nuovo oratorio quell'immagine incidendone in marmo la seguente memoria: “I.O.M. Hieronymae De Latinis E Nobili Prospaia Matronae Quae Pudicitia Caritate Et Castitate Omnes Sui Temporis Excelluit Huius Oratorii Excitatrici Quae Cum Ad Centum Quindecim Suae Aetatis Annum Virgo Permansisset[18] Haud Immatura Morte Functa Est Pia Societas Crucifixi". Oggi la chiesa di Santo Stefano Rotundi supra flumen od anche Santo Stefano delle Colonne, come fu anche chiamata prima del 1560, è dissacrata e la critica moderna, dopo le tante attribuzioni del passato, dopo recenti studi, crede che il tempio di Matuta[19] sia quello vicino a Sant’Omobono.
Nel lato posteriore del tempio rotondo (detto tempio di Vesta), sulla parete marmorea, liberata adesso dall'intonaco, compare un calice sormontato dalla croce ed un vaso da bere, ambedue dell'antica forma del calix e del poculum dei Romani. Il tutto graffito e con aggiunti certi circoli che significano dei pani, lavoro di un ignoto cristiano del VI secolo all'incirca che volle imprimere su quelle mura pagane un certo carattere religioso[20].
Come pure nel portico, sulla parete esteriore di marmo della cella sono praticate rozze irregolari strisce e incavature per tutta l’altezza della medesima. Esse vennero fatte nel Medio Evo allo scopo di tener saldo uno strato di calce, sul quale si doveva dipingere, quando il tempio era diventato la chiesa di Santo Stefano.
[1] ) Cave mulierem in omni casu.
[2] ) Diaconia e titoli - L'istituzione dei diaconi della Chiesa romana, è attribuita al Papa Fabriano (236-50), ma deve essere più antica, forse risale ai tempi apostolici, in analogia ai sette diaconi della chiesa di Gerusalemme. Sette furono in origine i diaconi romani preposti ciascuno ad una delle sette regioni ecclesiastiche in cui fu divisa Roma. Queste diaconie, a giurisdizione territoriale, corrisposero ad una necessità della vita dei cristiani, nei primi secoli dell'impero. Ospizi per vedove, pupilli, poveri e pellegrini, esse amministravano i beni della Chiesa. L'azione del diacono fu di natura del tutto sociale ed assunse a tanta importanza che, a preferenza dei presbyteri, la successione del seggio vescovile di Roma l'ebbero molto spesso gli arcidiaconi. Presbyteri e diaconi, cui si aggiunsero, in progresso di tempo, i vescovi suburbicari, componevano il concilio permanente del Vescovo di Roma. Concilio che, dapprima diocesano, originò il Sacro Collegio dei Cardinali quando, con l'aumentato prestigio della sede apostolica, diventò il senato della Santa Sede. I primi a ricevere il titolo di cardinales, furono i sette diaconi della chiesa romana, per differenziarli dagli altri diaconi semplici, addetti al servizio ordinario dei "Tituli". Dai "diaconi cardinales", l'attributo fu poi esteso anche ai "presbyteri" delle chiese titolari ed ai "vescovi suburbicari”, che insieme formavano il concilio della Chiesa romana. A differenza dei "titoli presbiteriali" le diaconie furono in gran parte al centro di Roma e, dopo la pace costantiniana, ebbero, ciascuna, a lato un'oratorio, ove però non si poteva celebrare la sinassi eucaristica. Più tardi, divenuti chiese, i diaconi, come i presbiteri, prendevano il nome da esse. Adriano I (772-95) ne fissò il numero in 18, essendo allora queste diaconie le sedi della carità cristiana, sostituendo in un certo modo i luoghi delle “frumentationes” e dei “congiaria” imperiali. Le loro sedi furono spesso stabilite in edifici pubblici. Così Santa Maria Antiqua, sotto il Palatino, ove una parte della casa di Caligola fu convertita al culto cristiano. E la sala delle sedute della Curia, anch'essa mutata in chiesa, con la semplice aggiunta di un'abside ad una delle sue estremità, e dedicata a Santa Adriano da Nicomedia. Altra diaconia, quella di Santa Maria in Aquiro che occupò i recinti sacri del tempio di Matidia, ma non la cella ove si prestava il culto pagano. Pure quella di Santa Maria in Cosmedin penetrata in parte nella cella del tempio di Cerere e con l’abside e l’altare della chiesa parte della "statio annone". Così i Santi Cosima e Damiano fra due edifici pagani: il creduto "templum sacrae urbis” e l' “heroon Romuli". E ancora la diaconia di S. Nicola in Carcere e la prima di tutte, residenza dell'arcidiacono, quella cioè di Santa Maria in Domnica. Ed altre ancora, che furono residenza dei "diaconi cardinales" che, al pari dei presbiteri, furono esonerati dalla cura dei fedeli, affidata ai parroci effettivi, mentre essi, i consiglieri del Pontefice, furono preposti ai vari dicasteri dell'amministrazione della Chiesa universale.
[3] Un tempio a Libero, Proserpina e Cerere era presso S. Maria in Cosmedin, ex voto del Dittatore Postumio nella guerra contro i Latini (225). Il tempio insieme con Cerere e Libera segna la prima introduzione del frumento già coltivato ed in uso nelle terre conquistate, ma ignoto ai Romani (Plinio XVIII-II) nei primi 3 secoli, durante i quali la sola grascia (cereale) da essi usata fu il farro. Decorato da Gorgasos e Damophilos, il tempio accoglieva in parità plebei e patrizi. Dal 449 a.C. fino all’impero vi risiedettero i tribuni edili e della plebe e nei sotterranei custodiva il denaro delle ammende. Culto di sacerdotesse campane. Vi si celebravano i “Ludi Cereales” in aprile ed in agosto il “sacrum anniversarium Cereris” con feste che duravano 9 giorni, nei quali le donne , che più non avevano rapporti con uomini vestivano di bianco, emblema di purezza.
[4] ) Altro presso il Circo Massimo. In occasione della scoperta di una pretesa congiura contro Nerone, dice Tacito nel XV libro-74: "Furono allora decretate offerte votive e grazie agli dei, un particolare onore fu tributato al Sole, il cui antico tempio sta appresso il circo...". Altro tempio del Sole, secondo il Fauno (XVI sec.) esisteva alla Trinità dei Monti.
[5] ) Rinvenuti dal 1577 in poi in varie riprese. Trattano di alcuni giorni solamente fra gli anni 3 e 10 d.C.; furono compilati ed annotati dal grammatico M. Verrio Flacco, maestro dei nipoti di Augusto.
[6] ) A Porto aveva un altro tempio che viene identificato con quell'edificio rotondo a sinistra della via presso l'ingresso della tenuta Torlonia. Anzio ebbe un tempio dedicato alla "Fortuna equestre" cui, sotto Tiberio fu portato il dono votato dai cavalieri romani per la salute di Giulia Augusta.
[7] ) A fianco della Riva del Tevere si trovava un bacino di carenaggio per bastimenti di guerra detto, nella "Forma Urbis", "Navalis inferius”: esso era situato quasi di fronte all'Isola Tiberina, un po' a valle del ponte Sublicio che sbarrava la via alla navigazione di sud-est. In quest'arsenale furono trasferite, nel 338, le navi tolte agli Anziati; di là partì, nel 394, la "navis longa" con l'anatema per l’Apollo Pitio; nel 57, Catone vi sbarcò il tesoro del re Tolomeo e nel 291 vi fu ancorata la nave (Lugeo) che trasportava il serpente sacro di Esculapio. Più a sud dei “navalia inferiora" v’era lo scalo dell' “Emporio”. I “Navalia superiora" capaci di lunghe navi e fornite di bacino, che accolsero le navi regie tolte ai Macedoni, stavano di fronte ai "prata Quinctia", fu là che gli ambasciatori del senato invitarono Cincinnato ad assumere la dittatura. (Livio, III, 26)
[8] ) Giovanni VIII (872-882) - Di questo Papa, che pur combattendo valorosamente, vinse i saraceni nella battaglia navale di Porto, seppure in seguito venne con essi a patti obbligandosi di pagare un tributo annuo e che edificò Giovannipoli, è detto per ischerno "Giovanna la Papessa". Il medioevo favoleggia che fosse una donna che s'era ribattezzata "Giovanni l’Anglico" (era invece nato a Roma) e che: "Papa pater patrum, peperit papissa papellum", come spiegava un'iscrizione antica, che apparteneva ad un sacerdote di Mitra. Una statua di donna con un bambino che si ergeva sullo "Stradone di S. Giovanni", per il corso dei secoli, fu reputata simulacro della Papessa Giovanna. Solo Sisto V (1585-90) la fece rimuovere. La favola ottenne, verso il 1400, una fede così ferma che non si esitò a mettere il busto della papessa fra le immagini dei papi nella cattedrale di Siena con l'iscrizione "Giovanni VIII, donna inglese", l'immagine fu fatta rimuovere da Clemente VIII (1592-605). Si disse pure che il Sacro Collegio, per garantirsi nell'avvenire, stabilì che: “Surgensque de Sede ducitur a Cardinalibus ad sedem lapideam per Porticum, quae sedes dicitur stercoraria, quae est ante porticum Basilicae Salvatoris Patriarchatus Lateranensis, et in ea eundem Electum ipsi Cardinales honorifice ponunt, ut vere dicatur: suscitans de pulvere egenum et de stercore erigens pauperem, ut sedeat cum principibus et solium gloriae teneat.” (Alzatosi dal trono è condotto dai Cardinali ad un sedile di pietra attraverso il Portico; tale sedile è detto stercorario e si trova davanti al portico della basilica del Salvatore del Patriarcato Lateranense, e su questo gli stessi cardinali fanno sedere con grandi onori l'Eletto, così che possa dirsi veramente: sollevando il povero dalla polvere e facendo alzare il misero dallo sterco, così che segga con i principi ed occupi il soglio della gloria.). A maggior garanzia, il Papa sedeva altresì sopra due altri sedili fessi (con un foro) di porfido, nella cappella di S. Silvestro in Laterano. Sull'uno riceveva le chiavi della basilica, dall'altro la restituiva al priore. Nella leggenda romanesca, seduto il papa, il cardinal diacono lo palpeggiava attraverso il foro e si accertava che avesse i testicoli ovvero la maschia coglia... Il bizzarro costume durò fino al XV secolo ed una tal sella di marmo rosso, si trova oggi nel museo Vaticano. Fu detto che Giovanni VIII fosse successo a Leone IV (847-55) mentre il successore di questo Pontefice fu Benedetto III (855-8) come risulta anche dalla moneta d'argento di questo Papa, dove, nel rovescio, è scritto: "Hlotharius Imp. 840-5". Di Giovanni scrisse Panvinio (1529-68): "questo Giovanni è ottavo, e non nonno, come vuole Platina (1421-81): perché se ben Giovanni Papa femina, che egli pone, stato fuse: non perciò per non esser dell'ordine sacro capace, doveva avere luogo, e numero fra gli altri. Vi è ancora, che in tutte le istorie, le bolle e gli strumenti di questo Pontefice, sempre viene VIII chiamato. Et a lui un certo Giovanni cardinale di Santa Chiesa scrisse in quattro libri la vita di S. Gregorio per lo più dalle opere del medesimo santo cavata et diligentemente raccolta insieme e fino ad oggi si legge. Annonio nel quinto libro di storia Francese dal 32 fino al 37 cap., molte cose, e degne certo di memoria, scrive di questo Pontefice, che nella Francia andò. A questo Pontefice solo avvenne che in breve spazio di tempo tre Imperatori coronasse, Carlo Calvo, Lodovico Ballio, e Carlo Grasso; Annonio ne sopraluoghi e Othone Frisigense nel sette da 7 et 8 capo del sesto libro delle sue historie sono di questi autori". (Epigrafe greca in San Giorgio in Velabro).
[9] ) Essi erano precisamente: Il “Primicerius, il "Secondicerius” dei notari, “l’Arcarius”, il “Sacellarius”, il “Protoscrinarius”; il “Primus defensor”, e il “Nomenclator”. Questi ufficiali, per i loro rapporti temporali, non salivano a dignità ecclesiastiche, ma rimanevano nell'ordine dei suddiaconi pur avendo un'influenza superiore a quella degli stessi cardinali.
[10] ) La chiesetta, che era rimasta compresa nel serraglio degli ebrei è perciò dissacrata ed abbattuta, era detta S. Lorenzo dei Cavallucci o de Gabellutis e sembra abbia anche portato l'attributo "de mundezariis” o "de mundezarie" o "de’ Cavallini", "de Caballis", "Petri Leonis" e “de fulmine".
[11] ) In Roma antica: pozzo cilindrico scavato nei pressi dei templi, destinato a deposito di oggetti votivi per sottrarli a furti e profanazioni.
[12] ) "Fortuna aurea" era quella collocata nella camera da letto degli imperatori
[13] ) Dette una toga “pretexta" e l'altra "ondulata".
[14] ) Una colonna mancante si crede debba essere quella innalzata nel Foro Romano all'imperatore Foca (602-610).
[15] ) V'erano sull’Aventino due località dette: "Laureta maior” e “Laureta minor”.
[16] ) Vedi ”Via di San Saba” (Ripa-Aventino-San Saba).
[17] ) …che testarda !!!
[18] ) Che cocciuta!!!
[19] ) Marco Fulvio Camillo: "...ludos magnos ex senatus consulto vovit captis se facturum aedemque Matutae Matris refectam dedicaturum, iam ante ab rege Ser. Tullio dedicatam”. E infatti, alla caduta Veio: "Tum Iunoni reginae templum in Aventino locavit, dedicavitque Matutae Matris”. (Livio, V, 19 e 23).
[20] Così nell'atrio della basilica di San Clemente dove, sopra la prima colonna destra, è graffita la croce monogrammatica come pure nel vestibolo di S. Pietro, l'ultima delle colonne anteriori a destra, presenta il monogramma circondato da Alfa e Omega.
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