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Piazza Navona (R. VI – Parione) (Vi convergono: Via Agonale, Passetto delle Cinque Lune, Corsia Agonale, Via dei Canestrari, Via della Posta Vecchia, Via della Cuccagna, Via di Pasquino, Via di Sant´Agnese in Agone, Via dei Lorenesi)
La piazza prende il nome dal "Campus Agonis", così chiamato attorno al 1000 e trasformatosi poi in “Nagone”, “Navone”, “Naona” e “Navona”,
Lo stadio che Domiziano (81-96), come il suo “Odeum” [1], aveva costruito nel Campo Marzio per oltre 15.000 spettatori , secondo il Lugli, aveva la “cavea costituita da una serie di arcate e di camere”, disposte in cinque file parallele, le cui volte si alzavano con un’inclinazione di circa 30° sul piano dell’area, per reggere i due mediani delle gradinate.
Per accedere a queste, si alternavano, nei cunei costruttivi, un corridoio aperto verso l’arena, uno chiuso e uno fornito di una scala verso la “Praecinctio” (corridoio che si svolge ai piedi di ogni settore delle gradinate) che divideva i due mediani.
I pilastri erano in parte di opera quadrata di travertino e in parte di opera laterizia a seconda della loro posizione.
Domiziano inaugurò il suo stadio nell'anno 86 d.Ch. [2] e chiamò agonali i giochi che vi si svolgevano, nome che passò allo stadio ed in seguito alla piazza (platea agonis).
Circa l’origine di tale appellativo, Ovidio stesso ne cerca le radici nei suoi Fasti, enumerando, senza concludere, le varie ragioni che avrebbero potuto originarlo (Fasti, lib.I, cap.III).
Il grande stadio che aveva i “carceres” [3] dalla parte della via della Cuccagna e, alla parte opposta, il lato lunato, si conservò efficiente circa fino al IV secolo, ma poi le incursioni barbariche, gli agenti atmosferici e più di tutti i calcari [4], ridussero il monumento in una rovina.
Qualche casetta si annidò fra gli archi diruti e già nel 900 i monaci di Farfa, dalla vicina piazza Lombarda o Longobarda (Piazza Madama) ne vantavano la proprietà, passata, sotto il papa Leone IX (Bruno von Egisheim-Dagsburg - 1049-1054) a quelli dell’abazia di San Paolo ed in parte ai monaci di Santa Andrea del Soratte.
Prima del ‘500, questo tratto (dalla parte di Via di S. Maria dell’Anima) era occupato da edifici appartenenti a proprietari diversi che, sotto l’incoraggiamento dato all’edilizia da Sisto IV (Francesco della Rovere - 1471-1484), avevano costruito fra i ruderi dello Stadio di Domiziano, basando le fondamenta delle loro case sugli archi dello stadio.
Come già detto, sotto Sisto IV, si intensificò il trasporto dei travertini dallo stadio per la costruzione degli stabili, che avevano una delle facciate in agone e l’altra per la via di Santa Agnese (oggi Via di S. Maria dell’Anima). Nel ‘500, su via Sant’Agnese, le arcuazioni del circo erano scomparse sotto i nuovi fabbricati. Le meretrici "de candela" persero gli oscuri fornici dove svolgere la loro professione (vedi Piazza dell´Oro - Campo Marzio).
Il Palazzo Panfili - Il palazzo dei Pamphili ha avuto origine da una casa acquistata nei primi anni del XV secolo da un Mondello de’ Pamphili che fu il capostipite in Roma della famiglia. Altre casette vicine furono acquistate nel 1471 e 1497 finché nel 1509 ad un Pamfilio riuscì di riunirle in un sol corpo.
Dal 1625, Monsignor Giovanni Battista Pamphili (poi Innocenzo X) si adoperò ad ingrandire la proprietà, e, da cardinale, nel 1634, acquistò ancora edifici confinanti, fra i quali quello del principe di Massa [5] ed un altro dei Mellini [6]. Creato papa Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphili - 1644-1655), ormai padrone di tutto il rettangolo limitato dalle attuali Piazza Navona, Via Pasquino, via dell’Anima e via di Santa Agnese, fece costruire il Palazzo.
Donna Olimpia (1591-1657) [7], la potente cognata di Innocenzo X, in quel periodo che il teatro a Roma era diventato, più che passione, una mania, faceva recitare nel palazzo di Piazza Navona varie commedie. Dice il diarista Deone Hora Temidio (anagramma di Theodoro Amayden - 1586-1656), che principi, duchi, marchesi, “si compiacquero per darli gusto di diventare istrioni”.
Grandi banchetti al termine delle recite o per onorare illustri personaggi.
Rimase memorabile la cena da lei data in onore dell’ambasciatore Cattolico (Spagnolo), l’8 febbraio 1645. Nell’interminabile menu, si leggeva fra le altre pietanze: “Una testa di porco selvatico salpresa e poi cotta in vino e aceto e regolata con fette di prosciutto e salciccioni sfilati attorno con verdura sotto, ed un polpettone all’inglese in forma di rosa fiorita, con scorze di cedro candide e pignoli”
Chiesa di S. Agnese in Agone - Nel 1652: “Giovedì 15 di agosto, giorno dell'assunzione della Madonna, fu buttata la prima pietra nell'angolo dei fondamenti della chiesa di Santa Agnese in piazza Navona, la quale era gran tempo che ne haveva di bisogno, et meritava di essere onorata... Il Papa si mosse a fare queste spese per grandezza della famiglia per essere appresso al suo Palazzo et per farvi un collegio sotto la protezione di Casa Pamphili. Vi stavano prima li chierici minori, li quali furono licenziati et gli bisognò andare a star con gli altri della sua Religione a San Lorenzo in Lucina...”.
Fu allora, che la facciata della chiesa, che prospettava sulla via di Santa Agnese in Agone, fu, su disegno del Borromini, rivolta sulla piazza Navona e la stessa Chiesa, ingrandita, occupò gran parte dell’area Mellini e quella di altre due case annesse. Chiesa che in origine doveva essere stata un semplice oratorio [8], del quale è parola nell’itinerario dell’Heinsiedeln nell’VIII secolo.
Secondo un’antica tradizione, il sacro edificio sarebbe sorto dove la vergine Agnese "avrebbe sofferto il martirio del lupanare". Fu qui tra i fornici dello stadio, che erano usati già a tale scopo, in qualche sua parte, che sarebbe avvenuto il prodigio dei capelli, narrato anche da San Damaso (366-384) nella epigrafe monumentale [9] che a questa martire dedicò: “Nudaque profusum crinem per membra dedisse”.
L’ingresso al primitivo tempio era in un largo [10], che si trovava nella prima parte della strada di Santa Agnese (ora S. Maria dell’Anima). Aveva un portichetto, seguito da più basse arcate in declivio, attraverso le quali si scendeva al “sacellum infimum”.
Fra Mariano Fetti la chiama "Ecclesiuncula sanctae Agnetis in Agone" ed aveva annesso un monastero. Fu ingrandita la prima volta da Callisto II (Gui de Bourgogne - 1119-1124) e da lui dedicata nel 1123.
La piccola basilica si chiamò “Santa Agnetis in Agone”; “de cryptis agonis”; “de campo Agonis” e nel 1334 vi fu battezzata Santa Francesca Romana e nel 1403 sepolto il padre suo, Paolo Bussa. [11]
Con l’incorporamento della Chiesa nel palazzo Pamphili, questa fu ancora ingrandita, perdendo però completamente la sua antica forma. Nel sotterraneo, fra i pilastri in travertino che sorreggevano i fornici del circo, è il posto dove si crede fosse stata condotta la martire, e vi si possono ancora vedere affreschi deteriorati, relativi a Santa Agnese. Anche per questo ambulacro c’è una diceria popolare, che afferma sia in comunicazione con la basilica di Santa Agnese sulla via Nomentana.
I lavori della nuova chiesa iniziati, come detto il 15 agosto 1652, con la posa della prima pietra, gettata dal fanciullo Giovanni Battista Pamphili [12], pronipote del Pontefice, andarono per le lunghe. Infatti nel 1653 “La fabbrica di Santa Agnese fu tralasciata, o fusse, come dicevano i muratori, perocché non correvano danari, o perché il papa si era presa collera grande, per aver inteso che il disegno non riusciva degno di lode, anzi era stato pubblicamente biasimato e ripreso da Marcello Longo, architetto giudizioso et libero di parola, particolarmente per una certa scala che si era fatta, che occupava parte della Piazza et faceva scomparire il palazzo dei Pamphili, la quale scala fu ordinato che si demolisse” [13]. Più tardi (1670) fu slargata [14].
Si vuole, che i lavori riprendessero nel 1654, in seguito ad un pettegolezzo riferito al Pontefice, da quel suo pronipote di sei anni, che aveva messo la prima pietra della Chiesa. Il fatto è così raccontato dal diarista Giacinto Gigli (1594-1671) alla data di febbraio 1654: “Essendo andato a palazzo il suo pronipote Giovanni Battista, fanciullo di sei in sette anni, il Papa fra le altre cose gli domandò quanto tempo era che non aveva visto la fabbrica di Santa Agnese. Rispose il fanciullo: io l'ho vista, ma se non sollecitate, voi non la vedrete finita. Il Papa gli domandò: chi te l'ha detto? Tacque il fanciullo et non rispose. Allora il Papa lo menò in una camera et aperto uno studiolo, gli cominciò a dare diverse belle cose, et tuttavia gli domandò chi glie l'haveva detto, ma quello non rispose mai cosa alcuna. Allora il Papa, sdegnato, gli diede uno schiaffo et per più di tre mesi non volse che gli comparisse davanti”.
Certo è che nel settembre di quell’anno lo stesso diarista scrive: “La fabbrica della chiesa si sollecita con grande diligenza et si lavora anche nei giorni di festa et quelli che non volevano andarvi la festa, li pigliavano con i sbirri et costoro havevano da lavorare contro la volontà; ma quando il Papa si ammalò, tutti se ne andarono via, et per una settimana non si lavorò, perché non erano stati pagati, ma poi che furono ritornati li si pagarno puntualmente ogni sabato sera”.
Ma, il 1° gennaio 1655, Innocenzo X morì [15] ed i lavori cessarono del tutto [16].
Benché il successore Alessandro VII (Fabio Chigi - 1655-1667) avesse, al suo avvento, mandato una gravatoria a Donna Olimpia [17] per il proseguimento dei lavori, questi seguitarono solo proforma. Troppi rancori si erano accumulati sulla "Pimpaccia" e Pasquino imperversava contro colei cui il defunto Pontefice aveva posto "il bel Dominio in mano”.
“Che spesse volte die’ la tratta al grano, E la fava per gran’ fu macinata, Et chi chiedea le Gratie, havea l’intento Porgendo alla Signora oro e argento”.
e non si peritava di aizzarle contro, la canizza dei malcontenti:
“Finita è la foia Di questa poltrona Di piazza Navona Chiamatele il boia: Finita è la foia É morto il pastore, La vacca ci resta Facciamole la festa, Cavatele il core: É morto il pastore!”.
Donna Olimpia [18], oltre tutto, aveva già esperimentato un saggio della pubblica benevolenza nel 1647, quando Innocenzo X si era ammalato [19].
Alessandro VII l’allontanò da Roma e i lavori andarono, fra sospensioni e riprese, tanto a rilento, che solo domenica 17 gennaio 1672 il cardinale Filippo Antonio Gualtieri (1660-1728) poté consacrare il nuovo Tempio e dopo che il regnante Pontefice Clemente X (Emilio Altieri - 1670-1676) aveva, con un suo chirografo dell’11 giugno 1670, donato all’ormai ventiduenne principe Giovanni Battista Pamphili tanto terreno pubblico “dalla parte di detta piazza Navona, ad effetto di fabbricarvi in esso, in conformità della pianta e disegno, scalinata per rendere detta nuova chiesa più cospicua alla città e di maggiore comodità al pubblico...”.
Il Collegio Pamphiliano, che viene dopo la chiesa, era sorto su una parte del palazzo, già dei Rivaldi (quasi di fronte a Tor Millina), che, acquistato, nel 1652, aveva le due fronti su piazza Navona e su via di Santa Agnese in Agone,
Il Palazzo de Cupis “gran casa o palagio posto incontro all'ospedale teutonico, con sale, camere, cucina et tinello terreni, stalla et horto retro con pozzo, et uscita sul campo di Agone, et altre casette, che da lato hanno la chiesa di San Nicola”, si trova sul lato destro di via dei Millini (attuale via Santa Agnese), venendo da piazza Pasquino.
Il cardinale Giovanni Domenico De Cupis (1493-1553) [20] ai primi del ´500 dopo aver acquistati detti stabili, li fece abbattere e vi costruì quel palazzo [21] che oggi esiste ancora. Ma nel ´600, il decadimento patrimoniale della famiglia, “per estinguere i debiti fatti da Girolamo”, costrinse i De Cupis a vendere i loro palazzo agli Ornani, nobile famiglia corsa, con i quali si erano imparentati. Il palazzo, per circostanze diverse, diventò condominio ed agli Ornani restò la parte verso i Lorenesi “con due facciate principali, della via dell'Anima e piazza Navona”.
Fu qui che, in un vasto locale al pianterreno, gli Ornani adattarono, verso il 1780, un teatro [22] che, benché frequentato anche da persone eminenti, riuscì ostico all’abate Giannini (+ 1829) della vicina chiesa di San Nicola dei Lorenesi (Vedi Via di S. Maria dell´Anima - Parione).
San Giacomo degli Spagnoli - In via della Sapienza (oggi corso Rinascimento), con la facciata di fronte allo ”Studium” (Sant´Ivo alla Sapienza), fin dal XII secolo fu eretto il “Templum S. Jacobi Hispanorum”[23] dall’infante don Enrico, figlio del Re Ferdinando III (1199-1252), detto il Santo.
Nel 1450, San Giacomo fu ampliato da Alfonso de Paradinas, poi vescovo di “Ciudad Rodrigo” (Spagna) e sotto Alessandro VI (Rodrigo Borgia - 1492-1503), dopo averla ingrandita ancora, vi aprì davanti una piccola piazza ed un ingresso sulla piazza Navona. Vi furono poi trasferiti due ospedali che l’infante Enrico aveva creato presso S. Rita (Campidoglio) per le donne e a via Santa Chiara per gli uomini. La chiesa [24] (chiesa nazionale Spagnola) celebrava le ricorrenze e le feste della Spagna, così nel 1492: “Alli 2. Venne la nova come lo re de Spagna haveva avuta Granata, quale era stata oppressa da infideli 780 anni, et fu gran nova e allegrezza de tutta Cristianità. Alli 3. andò lo banno si dovessero far fuochi, sonar campane et far festa per la sopradetta nova et nettar le strade; et la domenica seguente andò la processione da S. Pietro sino a S. Iacopo degli Spagnoli et havevace d’andare lo papa (Innocenzo VIII - Giovanni Battista Cybo - 1484-1492) et non ce andò per il molto piovere, ma andò a cavallo a S. Jacovo con tutta la corte, dove disse la messa con le solite cerimonie, et la sera lo vice-cancellieri (nell’imminente, futuro Alessandro VI) fece ammazzare tre tori innanzi casa suo et tutto il dì si fece festa.....”.
Nel “Diario di Roma” del principio dell'XVIII secolo si fa spesso menzione di questa chiesa perché dalle sue “logge” o “ringhiere”, personaggi illustri assistevano agli spettacoli che offriva Piazza Navona [25]. È scritto a ricordo del 7 agosto del 1729: “nella loggia di S. Giacomo degli Spagnoli era stato preparato un baldacchino per la Regina d'Inghilterra che non vi andò, ma bensì i figlioli, il maggiore dei quali gettava nell'acqua (Piazza Navona allagata) de’ mezzi baiocchi, a raccogliere i quali, vi andavano i ragazzini”.
Allagamento di piazza Navona - La prima notizia che si ha in merito è quella del proposito di Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphili - 1644-1655) “di condurre l'acqua di Trevi in piazza Navona [26] per un festeggiamento”, il 23 agosto 1645. Il 23 novembre 1647, furono provati “gli acquedotti dalla piazza di Trevi fino a piazza Navona”, Ma una notizia, del 14 luglio 1685, ci dice che, “ad istanza della Duchessa di Bracciano (Orsini), il 15 luglio avranno inizio gli allagamenti della piazza”. Allagamento che però fu revocato dal pontefice regnante Innocenzo XI (Benedetto Odescalchi - 1676-1689), il 21 dello stesso mese. Secondo la notizia del “Diario” del Gigli, tuttavia sembra che, nel 1652, la Piazza venisse già allagata nei mesi estivi, per quanto non si siano rintracciati bandi relativi a questi primi “laghi”.
Questo “divertimento” che deliziava il popolo Romano, gli veniva offerto il sabato e la domenica del mese di agosto, e durò, con sospensioni nel 1676, dal 1720 al 1725, dal 1743 al 1745, nel 1749 e nel 1750, fino alla seconda metà del XIX secolo. L’allagamento visto da mia madre (dell’autore, Giovanni Zitelli) il 20 luglio 1865 sembra sia stato l'ultimo.
Per allagare piazza Navona, turate le fistole delle fontane, “L’acqua traboccava giù per i gradini e scorreva per la Piazza, la quale essendo dolcemente inclinata, formava come una lunghissima conca” [27].
È però sotto Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphili - 1644-1655) che il divertimento prende un posto fisso nel calendario.
E da allora, regolato l’allagamento da un’ordinanza di “Monsignore delle Strade" che stabiliva il "permesso a ciascuno di recarvisi, con qualsiasi legno a cavalli a diporto, dentro quelle acque, ma nelli giorni di domenica, dalle ore 21 (3 ore prima dell’Ave Maria) in poi fino al termine di tale divertimento. E che non possano introdurvisi che le carrozze e carrettelle ed i soli cavalli, decentemente bordati, con sopra il rispettivo condottiero, esclusi li carrettini, carrette, strascini ed altri legni da carico e le gubbie de’ cavalli (pariglie) che sogliono recarsi dai vetturini, stallini ed altri. È severamente vietato a chiunque, in tutti li giorni ed in qualunque ora del lago, introdursi dentro il medesimo scalzato, conforme si è praticato negli anni scorsi dai ragazzi ed altri della bassa plebe, tirando scorze ed altro e facendo altre consimili insolenze”.
Ma Monsignore non era certo sincero quando attribuiva alla bassa plebe lo scalzarsi ed il compiere “insolenze” diverse, infatti, tanto per un esempio, una notizia del 1717 dice: “Questa notte nelle acque di piazza Navona (trasformata in lago) si sono vedute alcune dame venali con diversi signori, tra i quali era lo Spreca (Famiglia nobile originaria di Viterbo), le quali per essere forse scaldate dal vino, spogliatesi si sono tuffate in quelle acque, e, dopo di avervi alquanto dimorato, una di quelle, assalita da fiero deliquio, è rimasta dentro di esse, e volendo la compagnia darle aiuto, non poteva perché per il freddo erasi intirizzita , onde fu necessario a quei signori, per non vederla morire, di porsi allo sbaraglio nelle acque, tutto che vestiti, per salvarle la vita. È cavatala fuori di detto pericolo, hanno durata grande fatica per farle ritornare lo spirito, a forza di panni caldi e di spiriti medicinali”.
Che il popolo sfogasse la sua esuberanza con troppo impegno è vero, ma ad incitarlo contribuivano le “manciate” di “baiocchi e papetti” gettati nell’acqua dalle ringhiere e dalle finestre delle case prospicienti, ciò che costringeva i ragazzi a scalzarsi per potersene impadronire. E se qualcuna di queste... elargizioni sbagliava il bersaglio o non era abbondante come desiderato, che meraviglia se i raccoglitori protestassero con le cocce dei cocomeri, che a carrettate affluiva in quell’occasione alle bancarelle, verso la piazza dell’Apollinare? Anche la lotta per impadronirsi delle monete aveva le sue vittime, ché con i calzoni tirati sul ginocchio finivano per urtarsi e cadere distesi nell’acqua, non più certo “Vergine”.
Mentre sulle rive del “lago” si svolgevano queste ed altre scenette, se il sabato erano di scena vetturini, carrettieri, mozzi, che conducevano i loro cavalli a rinfrescarsi e gli squadroni della cavalleria, dell’artiglieria e dei treni pontifici, che, a suon di trombe, facevano più giri nella piazza, la domenica, mentre una banda suonava sotto il palazzo Pamphili, gli equipaggi signorili si dilettavano nell’acqua.
“Per divertirsi a quella frescura”, le carrozze del “generone (ricca borghesia) [28] e del patriziato sfoggiavano attacchi a quattro gubbie (pariglie), carrozzoni dorati, con un seguito di livree scintillanti” e perfino carrozze fabbricate per l’occasione come quella nella quale comparve sulla Piazza, il 4 agosto 1703, il principe Pamphili, che in un calesse a forma di gondola, guidava personalmente il superbo cavallo.
Grandi ricevimenti intanto erano offerti nei palazzi circostanti e se anche qualche sovrano interveniva a godersi lo spettacolo, s’innalzava per lui, sulla loggia o sulla finestra dov’egli sarebbe stato, un baldacchino con ricchi tendoni e cascate di broccato e velluto rosso.
Così una “notizia” narra di un ricevimento, dato da casa Pamphili il 12 agosto 1731, in occasione dell’allagamento, ed al quale erano presenti 15 cardinali e la totalità delle dame del patriziato romano:...”Cinque erano le tavole; nella camera della ringhiera che guarda la piazza, con gelati, spuma di ogni sorta, con attorno tre tavolini con cialdoni, biscottini, confetture, e la stanza con bellissimi parati, piena di argenterie di molto valore all'ultima moda. La credenza e la bottiglieria nella medesima sala erano guarnite di bacili codronati (lavorati) e istoriati con altri quattro bacili d'argento dorato lisci e di singolare valore, con quattro cassette d'argento per vini e liquori; quattro vasi lavorati di rilievo per accompagnare i bacili e diverse lanterne d'argento. Nella medesima camera gli uffiziali per servire, con tavola in mezzo, con grandissima quantità di cristalli e di bottiglie di vini francesi e quattro cassette d'argento per custodire i liquori in fresco. La prima tavola era di 24 coperti, con tutta roba di cucina, il tutto innalzato nel mezzo, e piatteria dorata e gran quantità di porcellane del Giappone. Nella seconda camera erano due tavoli di 24 coperti, l’una guarnita di frutti, di latte, gelati, di gelatine, sciroppi, fragole ed altro con oggetti proporzionati in argenteria, con porcellane di Sassonia tinte d'oro; nel mezzo delle due tavole, era un buccaro di altezza straordinaria, sopra un nobile piedistallo. La quarta tavola era tutta di cristalli con confetture. La quinta con caffè e thè. La sera vi fu gioco con sei tavolini e rinfresco continuo con cioccolatte calde e tutte sorti d’acque e cocomeri, e terminò la festa a 5 ore”.
Appunto col prolungarsi del divertimento a tarda sera, si organizzava, in onore delle dame, serenate musicali, così come quella del 15 agosto 1705 fatta dal marchese Ruspoli “ma cantandosi in mezzo all'acqua, il popolo ch’era alla riva non la poteva udire, hebbe un plauso di pochi, massime essendo cadute in acqua certe ninfe che stavano ad udire in calesse”.
Mentre tragicamente finì l’altra, alla fine del XVII secolo, per la rivalità di Alessandro Sobieski, principe di Polonia, con don Gaetano Cesarini, a causa della cortigiana “onesta”, Tolla di via Bocca di Leone. Questa, avanti al palazzo Orsini (oggi Braschi) sostava su un carro scintillante di luce e tirato da quattro cavalli, vestita da dea dell’Olimpo. Inginocchiata avanti ad una statua di Venere, che avrebbe dovuto simboleggiare la regina Maria Casimira di Polonia, vedova di Giovanni III e madre di Alessandro Casimiro, la quale assisteva da un balcone del palazzo, ne cantava a gran voce le lodi. Ma all’improvviso la comparsa del geloso duca Cesarini troncò la serenata e fece scendere sulla Piazza il principe Alessandro Casimiro, ed i rivali spalleggiati dai propri partigiani, sguainarono le spade ed una battaglia sostituì l’idillica serata.
Forse comico riuscì invece l’allagamento dell’agosto del 1864, quando il Partito Nazionale d’Azione fece galleggiare improvvisamente sulle acque stagnanti, numerose tavolette tinte di bianco con sopra scritto: “W. Vittorio Emanuele re d'Italia - W l'Italia una”. E lo sbirro Paniconi, l’emulo del quarantottesco Nardoni, che, avendo adocchiato nel poeta romano Augusto Marini uno degli organizzatori dello... scherzo, volle arrestarlo. Quando però fu per abbrancarlo si sentì dire dal poeta “Io ho messo solo i piedi in bagno per il caldo e non ho nessuna voglia di farmi portare... al fresco da lei”. E poiché un atto di forza da parte dello sbirro avrebbe in quel momento sollevato una tempesta, il Paniconi lasciò correre, ma nella notte scortato dai gendarmi si recò in casa Marini, al vicolo Gaetano 19 [29], per arrestare il poeta. Questi però, che conosceva i suoi polli, aveva già preso... l’erba fumaria.
Come già detto, nel 1865 cessò lo spettacolo dell’allagamento, ma ancora la piazza aveva servito e servì, secondo il suo destino, a tanti spettacoli che i romani prediligono ancora.
I Ludi - La piazza, recinta di steccati da Cesare (100-44 a.C.) ad Augusto (27 a.C.-14 d.C.), servì da palestra per i ludi ginnici. Servì ancora per i “ludi quinquennali” indetti da Nerone (54-68 d.C.). Domiziano (81-96) aveva trasformato il Gymnasium neroniano in una Stadio marmoreo, vi fece svolgere gli “agoni capitolini” e perfino i “ludi gladiatori”, trasferitivi dall’imperatore Maturino (217-218). Che, se la caduta dell’impero ridusse lo stadio a poco a poco ad una specie di alto terrapieno, non per questo fu privato, anche nei secoli più scuri, della sua funzione agonale.
Più tardi, spettacoli di forza bruta e comicità primitiva vi si svolgevano alla presenza dei maggiorenti e dell’onnipresente boia: giostre di vaccine e bufali; cuccagna del porco; la corsa dell’anello; combattimenti di nobili “per exercitasse in nelli principii virili, sera per sera, se adduceva in Nagoni, dimostrandosence pronti et preparati con qualunca, lutando, saltando, ove per travve el parlo... sopra li altri Astalli, Frangipani, Del Bufalo, Della Valle [30]”. E tutto questo fino al secolo XV, tanto che un forestiere ne riportò questa impressione: “crapula de taverna et festa de miseria”.
In tempi più leggiadri e men feroci vi si svolgevano: caroselli, la giostra del saraceno, corse di fantini, cuccagne, girandole, rappresentazioni di burattini, festini carnevaleschi, funamboli, tombole ecc. ecc..
A Piazza Navona si faceva il gioco della “Cuccagna” dalla parte del vicolo della Cuccagna che ne prese il nome [31].
Col mercato, che vi era stato trasportato il 3 settembre del 1477, vi si stabilirono cavadenti, flebotomi [32], e ciarlatani diversi. Né bastò la presenza di donna Olimpia Maidalchini a far cessare la gazzarra, giacché, nonostante la proibizione del mercato, ordinata varie volte da Innocenzo X, la vendita continuò sempre e, solo nel novembre del 1869, il mercato si traslocò a Campo dei Fiori.
Anche le cerimonie e le celebrazioni solenni, diventavano spesso, nella piazza, feste carnevalesche.
Infatti il “Campo in Agone” era, con i prati di Testaccio, teatro di memorabili feste, delle quali rimase ricordo quella del 1499 in cui si rappresentò “el triunpho di Vespasiano et Tito” che costò ad Alessandro VI (Adriaan Florenszoon Boeyens – 1522-1523) ducati 100 d’oro, che servirono solamente “per parare et ornare i carri trionfali pe’ le feste in Nagone”. E così nel 1515, sotto Leone X (Giovanni de' Medici – 1513-1521), ancora più di 100.000 scudi, senza i costumi delle feste del 1545, e le somme ingentissime spese per la celebrazione dei giochi in occasione dell’incoronazione di Pio IV (Giovanni Angelo Medici – 1559-1565), nel gennaio 1560, e per la venuta in Roma di Cosimo I, duca di Toscana (1537-1569) [33]
E poi le feste per l’elezione del re dei Romani [34], quelle per la nascita del delfino di Francia, promossa dal cardinale Melchior de Polignac (1661-1741) che destinò “per centro di tutta la pompa l'obelisco [35] e tirata una linea retta per lunghezza in forma della spina, vi furono costruiti edifici di varie sorti che tendevano tutti a rappresentare la gloria del re cristianissimo e a far lieti presagi alla fortuna, grandezza e felicità del noto Delfino”. Mentre la fontana centrale fu lasciata intatta, “le minori furono ornate di delfini ed altri fregi”. Naturalmente la sera fiaccole, torce e “una quantità innumerabile e veramente meravigliosa di razzi d'ogni specie, pignattelle, sbruffi e fontane, che gettando da ogni parte e in ogni macchina al tempo istesso, fecero una nuova dilettevole e non più veduta comparsa. Al fine poi si moltiplicò il numero dei razzi e scaturirono due copiose girandole. Tutte le macchine, dopo il regolato sparo di innumerabili mortaretti, che formarono una strepitosa batteria, restarono illuminate”.
Nel 1797, durante la Repubblica franco-romana, ebbe luogo sulla Piazza la festa di Cerere. Così oltre all’erezione dell’albero della libertà, che fu dovuto piantare e ripiantare, perché gli asini che trasportavano al mercato, erbaggi e frutta, “andavano a grattarvisi e lo atterravano” [36]. La colomba che sta sull’obelisco della fontana berniniana fu nascosta con un berretto frigio e nel centro dello spazio fra le due fontane “venne costruita una macchina a guisa di spina e i Consoli e gl’invitati assistettero ad una corsa”. Cori, strumenti a fiato e a corda e l’immancabile fuoco finale d’artificio allietò i neo-repubblicani [37].
Furono pure i francesi che, nel 1668, avevano iniziato, sulla Piazza, il teatro all’aperto, con dispetto degli spagnoli che non ne avevano potuto avere il permesso per ragioni politiche. E sembra che ne ritraessero un gran successo perché il diplomatico Raggi, in data 24 gennaio 1669, scriveva: “Piazza Navona non ha avuto tante commedie e banchi pubblici come adesso; anche donne vestite da huomo”.
Il teatro però ch’ebbe lunga durata fu quello dei burattini. Iniziatosi circa la metà del XVII secolo, si può dire viva tuttora. Ma il burattinaio che ha lasciato memoria di sé è quel faceto “Ghetonaccio”, che si esibiva nella prima metà dell'800, di nome Gaetano Santangelo (1782-1832). Arguto nelle sue satire e nelle sue facezie, era una specie di Pasquino vivente e, per questo, molto ben voluto dal popolo ed ostico alle autorità che lo sorvegliavano, spesso inutilmente, da vicino. E il casotto dei burattini è una delle poche cose oggi rimaste con i presepi e i pupazzetti per Natale, la fiera della Befana [38] e i... ciarlatani, ché, se cambiano i rimedi e gli oggetti in vendita, restano e resteranno sempre attraverso i secoli i... micchi.
Nel 1817, dopo l’abolizione della corda sul Corso (Via del Grottino), fu posto il cavalletto a Piazza Navona e a Piazza S. Carlo al Corso.
Uno di tali casi è così descritto dall’abate Benedetti e riferito da D. Silvani: “Presso la fontana del Moro [39] a Piazza Navona si era rizzato un palco sul quale stavano seduti tre uomini esposti alla berlina [40]. Ciascuno era legato sopra un banco ed aveva appeso al collo un cartello, su cui si leggevano a grandi caratteri il nome, il cognome e il soprannome del colpevole e della colpa che lo aveva fatto esporre alla beffa del popolo... Salirono due aguzzini sul palco; i pazienti furono legati bocconi sul banco ed un manigoldo somministrò ai primi due, 25 colpi di nervo di bue a ciascuno, sulle parti delle deretane. I pazienti si lagnavano, si contorcevano ed il popolo applaudiva ad ogni battitura, con una ferocia raccapricciante”. “Per il terzo uomo, pallido e scarno, l'aguzzino si pose all'opera: alzando il braccio segnava nell'aria una X, ed il nervo fischiando percuotevano violentemente l'infelice condannato... Ma ad un certo punto una voce stentorea gridò: “ferma!”. Quel grido, seguito da uno strillo di tromba, indicò al manigoldo che doveva sospendere le battiture. Appariva infatti il battistrada che precedeva il corteggio dell'ambasciatore della Serenissima. L'infelice torturato, alzando a stento il capo e visto il corteo, gridò con quel poco di fiato che gli era rimasto: “Grazia, grazia”, ed il popolaccio sempre mobile nelle sue voglie, cessando d’irridere al paziente, ripeté: “Grazia”. L'ambasciatore rivoltosi verso il luogo del supplizio visto quell'infelice, fece un cenno al bargello che presiedeva a quella punizione, e costui, chinando il capo profondamente, fece comprendere che la grazia era fatta. Il paziente fu subito sciolto, il popolo, salutando il benefico liberatore, gridò più volte: “viva San Marco!”. ____________________
[1] Alcuni pensano sia a Monte Giordano, alla base della fortezza Orsini, altri sotto il palazzo Massimo alle Colonne, a Corso Vittorio Emanuele II.
[2] Nello stesso anno, Domiziano istituì i giochi capitolini (dedicati a Giove) ogni quattro anni, che prevedevano, in apertura, competizioni letterarie e musicali, seguite da gare ginniche e corse dei cavalli.
[3] “Carceres” erano le sbarre che trattenevano i cavalli in partenza nelle corse.
[4] Il materiale di decorazione era ricavato dai monumenti dagli edifici romani, ma molta parte di essi finiva nelle “calcare” o fornaci per ottenere la calce.
[5] I Cybo, “conti del sacro palazzo lateranense e principi di Massa, per investitura di Massimiliano I, nel 1568, abitavano saltuariamente in questo palazzo, perché spesso lontani da Roma”. E da questo palazzo che, nel 1545, “si vide uscire la prima carrozza dell’Urbe. L'aveva fatta trasportare da Firenze, dove l'aveva usata due anni prima, la marchesa di Massa (una Cybo da ragazza)”.
[6] Dice un diario del 25 aprile 1646: “Si fabbrica in piazza Navona il palazzo dei Pamphili, avendo papa Innocentio preso l’antichissimo palazzo de’ Millini, per incorporarlo nella sua casa appresso a Pasquino”. Gli piaceva tanto che perfino il giorno del suo possesso in Laterano (23 novembre 1644) volle passare avanti “la sua casa” con tutto il lungo corteo.
[7] Dal popolo: «La Pimpaccia di Piazza Navona»
[8] Al tempo di Leone III (795-816) era chiamato “oratorium duo Furna”, certo dai fornici dello Stadio.
[9] Oggi nella scala d’accesso alla basilica della Santa, fuori le mura (mausoleo di Santa Agnese sulla Nomentana).
[10] In questo largo era pure la casa dei Bussa de’ Leoni. Dice l’Adinolfi: “La casa della famiglia Bussa de’ Leoni è dietro la chiesa fabbricata nuovamente a Santa Agnese, e fu posseduta, non è molto, dalla famiglia Bonadies. I Bussa, per Nicolao Bussa, sono conosciuti fin dal 1212, né conosco, in origine, a quale rione appartenevansi, forse a quello de’ Monti. Paolo Bussa, che fu il padre di Santa Francesca Romana, soprannominata dai suoi “Ceccolella”, prima del 1401, abitava in questa casa, dove nacque questa Ceccolella, maritata poi a Lorenzo de’ Ponziani, nobile trasteverino, e dove dimorò anche Simone Bussa, fratello della santa”.
[11] La lapide che copriva la salma del padre aveva questa semplice iscrizione: “Hic iacet Paulus Bussa qui obiit anno Domini MCCCCIII”. “La lapide sepolcrale con arme et iscritione da Rettori di detta Chiesa fu venduta prezzo vile ad uno scalpellino, dal quale la comprarono le monache di Tor dei Specchi, e la posero nel secondo claustro del loro monastero ove sta di presente” (Amayden XVII sec.).
[12] Era il figlio di Donna Olimpia Maidalchini di Viterbo (avuto nel primo matrimonio con Paolo Nini, facoltoso borghese) che, alla morte del marito, aveva sposato il fratello del pontefice, Pamfilio. Don Camillo (figlio del secondo matrimonio), creato cardinale nipote, assunse il cognome del Pontefice, dal quale fu poi autorizzato, non avendo ricevuto gli ordini maggiori, a sposare donna Olimpia Aldobrandini, principessa di Rossano, ed al suo posto fu creato cardinale nipote Francesco Maidalchini di 17 anni (figlio di un fratello di Olimpia Maidalchini, Andrea).
[13] Una nota pagata dal Prefetto della “Componenda”, ove figurano chirografi di Innocenzo X, porta: “A Don Camillo per la fabbrica del palazzo di piazza Navona, sordi 16.220 - A Donna Olimpia per detta fabbrica 87.710 - a Monsignor Torregiani per la Giuglia (guglia), 14.600 - al cardinale Panfilio per la primogenitura, 55800 - A Donna Olimpia un assegno di 250 scudi al mese ecc.” (per 10 anni e mesi 4 di pontificato, importano scudi 31.000). Alla sua morte fu trovato nei libri camerali un debito di 8 milioni di scudi ad un altro di 600.000 contratto dal Capitolo della Basilica di San Pietro per conto del defunto pontefice. Anche i fabbricieri di S. Pietro avevano ceduto a Don Camillo il travertino sopravanzato dai restauri della Basilica e, nell’agosto del 1654, lo stesso Innocenzo X veniva incontro alla fabbrica con la donazione di “12 colonne di verde antico e diversi marmi lavorati e non lavorati” serramenti ed altro rimasto dai noti restauri della Basilica Lateranense, indirizzando a Monsignor Franzoni il suo chirografo. Anche una compra-vendita (de rebus ecclesiasticis non alienandis) fu attuata con un contratto del 12 settembre 1694 fra la Badia di Grottaferrata e i Pamphili per alcuni marmi antichi, forse provenienti da scavo, giacché si presentano "rosicati", tanto un’ara scolpita rotonda, con due statue mutili e quattro "pili" a bassorilievo. Da piazza della Bocca della Verità una lista, datata 17 gennaio 1661, elenca molti frammenti di marmo salineo, granito, africano, con rocchi di colonne e altro. L’altare maggiore della chiesa fu compiuto, nel 1725, da un Don Camillo juniore, ricordato in una lapide insieme a suo padre Giovanni Battista e da suo nonno Camillo seniore. Del resto gli ultimi Pamphili ed i Doria, trasferitisi da Genova a Roma, nel 1769, per assumere il cognome dei loro congiunti romani, si occuparono sempre di questo tempio. Anzi questi ultimi attesero all’assetto della cappella sotterranea, insediata nelle reliquie dello stadio di Domiziano, con vicine le stanzette o cappelline dette grotte di Santa Agnese, dove i Pamphili vollero la loro sepoltura.
[14] - 2 agosto 1670 - “Andò il principe Pamphili a domandar per grazia al Pontefice (Clemente X) la licenza dello slargamento delle scale della sua Chiesa in Navona che li rispose: Ve la concediamo non volendo imitare vostro zio (Innocenzo X) che ci negò quella del nostro palazzo al Gesù”. (Archivio segreto Vaticano avvisi volume 40) Dalle brevi ma esatte notizie del computista della fabbrica della Chiesa sappiamo: “che ora partono le baulle (carri) del principe per caricare marmo a Campo Vaccino (Foro Romano), ora che occorse il taglio delle macchie nelle ripe del Tevere (Aniene) per passare le bufale con li tiri delle barche che conducevano li travertini (da Tivoli) per la fabbrica” o che si dovette procedere al riassetto delle strade, pel passaggio dei pesanti carri. Ed ancora altre notizie: il 2 settembre 1652, giunge “il marmo levato da S. Pietro Marcellino e portato alla fabbrica in conto della fede e approbatione di San Girolamo Rainaldi”; 14 settembre "78 carri con travertino e marmi tolti al Campo Vaccino"; 20 settembre “le barche hanno caricato a Ripa, 8 pezzi di marmo altri ne giungono da Termini" (terme di Diocleziano); 12 ottobre ‘65 "carri con altri marmi da Campo Vaccino” ecc. ecc..
[15] Fu sepolto nella tomba erettagli su disegno di Giovanni Battista Maini (1690-1752) e che per mancanza di posto fu messa, a grande altezza, sulla porta d'ingresso della basilica di Santa Agnese da lui ricostruita. Alla sua morte né donna Olimpia né altri eredi vollero pagare il sarcofago di bronzo e legno, sicché la salma, accantonata in sacrestia, fu per allora sepolta nel modo più semplice.
[16] “10 luglio 1665 - Il capitolo di S. Pietro ha fatto intendere al principe Pamphilio che paghi il valore dei travertini che già furono levati dal campanile a S. Pietro, ma esso risponde che ciò fu fatto con chirografo del zio. Ma gli vien risposto essere ciò vero circa la facoltà di levare le pietre per la fabbrica di Santa Agnese ma no di non pagarle e perciò bisognerà che detto principe sborsi alcune migliaia di scudi”. (Manoscritti Barberini latino 6367 Biblioteca Vaticana).
[17] Inutilmente ella mandò al Pontefice preziosi vasi d’oro che furono respinti.
[18] “Olim Pia – Nunc Impia”.
[19] Scriveva infatti il diarista Deone Hora Temidio (anagramma di Theodoro Amayden - 1586-1656): “Questi giorni passati per l’indisposizione del Papa e per il mancamento del pane, la casa della Signora Donna Olimpia è stata guardata con le sentinelle e compagnie dei Corsi. Più volte fu tentato l'assalto al palazzo. Una volta, per evitare il saccheggio, bisognò gettare sulla folla dalle finestre manate di scudi. La carrozza spesso era inseguita. Donna Olimpia dovette, per scampare il pericolo, rifugiarsi in chiese o palazzi”. E alcuni mesi prima che morisse il Papa “alcuni spiriti malcontenti andavano di nottetempo per la città e specialmente nelle chiese, e con grande artificio scancellavano in tutte le iscrizioni il nome di Innocenzo X e vi scrivevano quello di Donna Olimpia. Onde si diceva: "Innocenzo X Pontefice Mass”, vi scrivevano: “Olimpia Primus Pont. Max", la quale cosa venne fatta ancora nella chiesa di San Giovanni Laterano. In alcuni luoghi cambiarono tutto, non volendo che il nome di Olimpia servisse per un nome mascolino, lasciandolo nel genere femminile tal qual’era, cioè a dire: Olimpia prima Papessa”.
[20] La famiglia de Cuois “fu romana e nobile ed originaria di Monte Falco; da questa città venne in Roma Bernardino de Pupis o de Cuppis” (Amayden). Per costruire il palazzo, il cardinale dovette abbattere la torre Molpiglia, nominata fin dal XIII secolo, che si trovava vicino a San Nicola dei Lorenesi.
[21] Forma isola fra le vie Santa Agnese, Anima, Lorenesi e Navona.
[22] É il locale attualmente occupato dalla ditta Monamí e verso il 1855 fu detto teatro Emiliani dal nome del proprietario, che lo abbellì e fece illuminare a gas.
[23] La Spagna ha venduto la chiesa alla Congregazione francese di Nostro Signore del Sacro Cuore restandole, per chiesa nazionale, quella di Santa Maria di Monserrato ove si trasferì la Confraternita degli Spagnoli. Fu restaurata nel 1879 dagli acquirenti.
[24] Sembra sorgesse sull’area di Sant’Andrea (in Agone) nominata in una bolla di Nicolò IV (Girolamo Masci - 1233-1292): “Ecclesia quae cella S. Andreae dicitur, aquam habebis in urbe in loco qui vocatur Agone etc.”.
[25] Oltre la “Corsa al Saracino”, uno spettacolo gradito al popolino che spesso ne faceva le spese, era il "gioco del toro". Importato dall’ambasciatore spagnolo, consisteva nello scatenare un toro ricoperto di razzi, sulla piazza. Era lo spavento e la fuga della folla che divertiva la nobiltà. Fu pure all’inizio del XVIII secolo che in piazza Navona e precisamente sul palazzo Doria fu iniziata l’estrazione del Lotto
[26] - 23 agosto 1645 - “Nostro Signore pensa di voler condurre l'acqua della fontana di Trevi in Piazza Navona e che ci vorranno da 30.000 scudi per fare il condotto principale. Il cavaliere Bernino asserisce di dare la suddetta somma, purché a lui si venda il ritorno della detta acqua, dopo che in piazza Navona avrà fatto la comparsa, e così è stato con lui stabilito per la medesima quantità e si fa conto che egli, conoscendo il ritorno a diversi particolari, si rinfrancherà il danaro che dà presentemente, e ci guadagnerà all'ingrosso ancora”.
[27] Prima della sistemazione fatta dal Bernini delle tre fontane della piazza, Gregorio XIII (Ugo Boncompagni - 1572-1585) ne aveva fatto costruire una centrale che “consisteva in una conca rotonda di collegate pietre di mischio orientale, nel cui mezzo sgorgava un grosso canale, derivato dal castello del Trivio, in tal guisa disposto dall'inventore, che sempre scorgevasi la gran tazza ricolma, né appariva la bocca del tubo occulto che con vena abbondante d'acqua vi si scaricava”. Anche all’estremità della piazza Papa Boncompagni aveva fatto alzare le due fontane modificate poi con i disegni del Bernini.
[28] Erano così chiamati i personaggi della borghesia di fine ‘800 che tentavano di imitare i costumi della classe degli aristocratici.
[29] Il vincolo Gaetano - dice il Rufini: “La famiglia dei Gaetani di Pisa possedeva, a Santa Maria in Posterula, un palazzo che quindi vendette alla casa Celestini per comprare quello degli Ruccellai. Ora, siccome questo vicolo è posto vicino al luogo indicato, che anzi probabilmente nel medesimo eravi situato il nominato palazzo, così per corruzione gli fu appropriato il nome di gaetana”. (Scomparvero e chiesa e strada).
[30] Nel giorno di S. Marco del 1476, 100.000 persone si riunirono in Navona a vedervi un torneo celebrato da Girolamo Riario (1443-1488), nel quale italiani, catalani, borgognoni e guerrieri di altri paesi giostrarono per disputarsi premi".
[31] Nel 1878 vi “sono state trovate grosse pareti laterizie forse ad angolo retto, le quali racchiudono un’area lastricata di peperino”. Si tratta di parte dei “carceres” (o dell’Odeon di Domiziano?).
[32] Persone che operavano i salassi.
[33] Fu elevato a granduca da Pio V (Antonio Michele Ghislieri - 1566-1572), nonostante l’opposizione di Massimiliano II (1564-1576).
[34] Rodolfo II d’Austria (1576-1612) eletto re il 27 ottobre 1575.
[35] L’obelisco, che fu posto dal Bernini sulla fontana dei fiumi a piazza Navona, fu fatto fabbricare, qui in Roma, da Domiziano (81-96) e quindi posto, da Massenzio, nel suo circo sull’Appia Pignatelli.
[36] Scrive Sala il 23 aprile 1793: “Iersera ne fu eretto uno nuovo, veramente magnifico se non che rimase l'opera imperfetta, atteso d’essersi incontrati sotto li condotti delle fontane, che si sono rotti, e l'albero è rimasto storto”.
[37] Disse Pasquino: “Alberi senza radica? – Berretti senza testa? – Roma, davver, Repubblica? – Non resta, no, non resta” e i ragazzini romani: “Burracciccì, burracciccì... La Repubblica piena di stracci...ccì”.
[38] La fiera della Befana vi fu trasferita da Piazza Sant’Eustachio nel 1871-1872.
[39] La fontana del Moro. Fu scolpita la statua da Giovanni Antonio Mari (1630-1661) nel 1655, su disegno del Bernini, per 300 scudi. Sulla Piazza v’erano prima, due fontane per uso del mercato, e Gregorio XIII (Ugo Boncompagni - 1572-1585), nel 1575, la trasformò, con l’aggiunta di grandi vasche di marmo mischio orientale. Quando, a loro tutela, vi furono poste intorno le due cancellate. Disse Marforio: “Pro hinfelicissimam aquam! Ferreis clausere cancellis” e Pasquino a lui: “Nil mirum, pura erat!”. La seconda fontana, che è all’altra estremità, fu detta "dei Calderari" dalle loro botteghe che stavano in quest’angolo della piazza. Tal quale la fece costruire Gregorio XIII, rimase fino al 1873, quando il Municipio affidò agli scultori Antonio Della Bitta e Pietro Zappalà il compito di abbellirla. Il Della Bitta scolpì il Nettuno e la najade con il cigno e lo Zappalà le opere ornamentali accessorie. Da Gregorio XIII fu anche collocata la lanterna sulla cupola di S. Pietro, che, il 18 novembre 1593, Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini - 1592-1605) fece tutta ricoprire con lastre di piombo.... Fu anche sua cura far rialzare il pavimento della basilica, formando così le Grotte.
[40] “Cqua cce sò tre ffuntane inarberate - Cqua una guiia che pare una sentenza - Cqua se fa er lago cuanno torna istate - Cqua s’arza er cavalletto che ddispensa - Sur culo a chi le vò trenta nerbate - E cinque poi pe la beneficienza”. G. Belli.
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