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Via di San Teodoro (Campitelli-Ripa) (dal Foro Romano a via dei Cerchi)
È l'antico "vicus Tuscus” che partendo dalla via Sacra, all'altezza della Basilica Giulia[1], dedicata da Giulio Cesare nel 46 a.C.[2], divideva questa dal tempio dei Castori, dedicato dal figlio del dittatore Postumio il 27 gennaio del 484 a.C.
Il nome Tuscus è dovuto ad una collettività di Etruschi trasferitisi a Roma[3] fin dal VI secolo a.C., i quali finirono per farne centro dei loro commerci. Da questo, le iscrizioni delle loro botteghe di "vestiarii”, “purpurarii”, “turarii”, ecc. e “Turarius”[4] fu anche chiamato il vicus, dalla prevalenza di questi ultimi. Frequentato male, molti autori definirono questi trafficanti "impia turba”.[5]
Attraverso il Velabro, collegava il Foro Romano con quello Boario, fiancheggiando, a sinistra, quella grande aula domizianea, detta per errore il tempio del Divo Augusto e sul quale Caligola (37-41) avrebbe poggiato il ponte in legno[6], che evitava l'attraversamento del Foro congiungendo il "clivus Victoriae” al “clivus Capitolinus”. Quest'edificio, restaurato da Domiziano (81-96) dopo l'incendio del 80 d.C., si crede sia invece tempio della Dea Minerva, prossima al tempio del Divo Augusto posto nella piazza del Grecostadium.
“Ubi de plano legit possit” quei diplomi militari che dall'anno 90 in poi, terminano costantemente con la formula: "Descriptum et recognitum ex tabula aenea, quae fixa est Romae in muro post templum divi Augusti ad Minervam”.
E l'attribuzione di archivio militare dato alla basilica dedicata a Minerva, così come nei “praetoria” venivano consegnati i “signa”, deve appunto risalire circa il 90, perché fino all'88 i diplomi militari[7] erano affissi su vari edifizi del Campidoglio.
Vengono appresso gli "horrea Agrippiana”[8] (X regio) al posto dei quali non sappiamo quali edifici ci fossero nell'epoca repubblicana, ma quasi certamente dovettero esserci solo case private, così come seguì nel medioevo quando sopra una parte della loro area, fu costruita la chiesa di San Teodoro, che dette così il nome alla via.
Niccolò V (1447-55) "fece di nuovo la chiesa di San Teodoro doi volte, la prima acconciò la vecchia, la quale, acconcia che fu, cascò dai fondamenti, et lui rifece un poco più in là e poco minore che non era" (l'accorciò).
Ma della "vecchia" si sa solo che sotto Gregorio I (590-604) era già diaconia e che cessò di esserlo con Sisto V (1585-90).
Nel XVI secolo fu da qui portata in Campidoglio la lupa di bronzo che una leggenda voleva che fosse quella che Atto Navio[9] avrebbe posto sotto il fico[10].
La tradizione popolare riteneva esser quello stesso della Lupercale[11], sotto il quale si fermò la cesta con i due gemelli e che Navio aveva prodigiosamente trasferito nel Comizio[12], vicino al palazzo sacro.
Ma la statua che è adesso in Campidoglio non è già quella che era custodita nel santuario sacro a Fauno Luperco, ai piedi di quel “ficus ruminalis”. La statua Capitolina è opera d'arte etrusca, del V secolo a.C. ed era priva di gemelli[13], fino al nostro Rinascimento e, come risulta nelle monete più antiche di Roma, la lupa è in atteggiamento diverso.
Derivata da un tipo greco-ionico e dovuta probabilmente alla scuola artistica di Vejo, di quel Vulca (seconda metà del VI sec. a.C.) che decorò il tempio di Giove Capitolino, è forse la stessa che si trovava nel "Capitolium fulgens" e che venne colpita dal fulmine nel 65 a.C. Infatti le gambe posteriori dell'animale mostrano parti fuse, che i periti ammettono essere dovute alla folgorazione e, quanto ai gemelli, si sa che furono aggiunti nel secolo XV da Antonio del Pollaiolo (1426-98).
Santa Anastasia, chiesa palatina di corte ebbe certo in origine il nome di Anastasis (resurrezione) e faceva riscontro all’Anastasis di Costantinopoli, imitazione dell’Anastasis sui luoghi santi di Gerusalemme. Contraltare all’ ”ara maxima” e alla rotonda del tempio di Ercole, tradizionalmente eretti da Evandro. Santa Anastase diventò la prima fra le chiese titolari di Roma e quanto a dignità seguiva immediatamente la basilica Lateranense e quella di S. Maria Maggiore. Eretta nel IV sec., nel 403 il prefetto Longiniano vi costruì il battistero e papa Ilario (461-8) il mosaico absidiale. La sua erezione viene attribuita a Costantino che le avrebbe dato il nome della sorella. Altra tradizione, la dice eretta nella casa di Publio, marito di Anastasia, e di Pretestato suo padre. Titolo fin dal IV secolo, si vuole ne sia stato titolare San Girolamo ed un calice con cui, si pretende, abbia celebrato il Santo, viene annualmente esposto.
Presso il suo altare è scritto: “In isto loco promissio vera est et peccatarum remissio”.
Il professor Carlo Cecchelli rileva che “proprio nella zona in cui doveva trovarsi la caverna del “Lupercal” e dove Augusto aveva fatto una serie di costruzioni menzionate nell’epigrafe ancirana delle RES GESTAE (Lupercal fecit) esiste oggi la basilica di Santa Anastasia, la quale è certamente del IV secolo”. E dopo diverse considerazioni e rilievi conclude: “che qui, o nelle vicinanze immediate, possa identificarsi il luogo del famoso Lupercal, che ricordava il mito delle origini di Roma e che la Basilica del IV secolo (che aveva in origine una strana forma a pianta centrale) poté invaderlo, ovvero gli si pose accosto”.
Ritornando alla chiesa di San Teodoro, che si dubita sia stata il battistero palatino[14], fu, con l'oratorio di San Cesario in palatio, monumento dei bizantini cristiani, come il vicino San Gregorio, cavaliere greco, ricostituito da Leone III (795-816) e Santa Anastasia o Anastatis e non lontano da Santa Maria in Cosmedin (abbellita) con l'attigua "Schola greca” (via della Greca - Ripa), chiesa che aveva un'omonima a Costantinopoli.
Forse i “diversa officia palatii urbis Romae” che governavano in nome di Bisanzio, sotto la guida del Vicario d'Italia e del Cartulario, esercitavano dal Palatino[15] tale attrazione[16] che anche la curia del Senato diventò il santuario di Santa Adriano di Nicodemia, come anche greca fu la Chiesa diaconale dedicata ai santi eufratesi, Santi Sergio e Bacco, presso l'arco di Settimio, e perfino Santa Maria in Ara Coeli fu abitata, con i suoi monaci da un Hegumenos (abate).
Certo che a San Teodoro il mosaico dell’abside è d’influenza bizantina, per quanto il restauro fattone da Urbano VIII (1623-44) lo avesse già trovato molto rimaneggiato. La chiesa, a cella rotonda con tre nicchie agli estremi delle crociate (una funziona da abside), fondata sul secondo cortile degli "horrea”, era chiamata dal popolino di Roma col nome di Santo Toto, ed a questa si portavano, dalle madri, i bambini infermi, onde ottenerne la guarigione dal santo. Annesso alla chiesa, era un archivio assai antico che andò disperso dopo il sacco di Carlo V (1527) e fra le reliquie, oltre quelle dei martiri di Giorgio ed Agata, possedeva "unum ferrum lanceae”.
[1] ) Fra la Basilica Giulia ed il vicus Jugarius, in luogo imprecisato, esisteva quel lacus Servilius che era una piccola fontana scoperta, molto antica, e che scomparve circa l'epoca imperiale. Ignoto Servilio, da Seneca (4 a.C.-65 d.C.), fu chiamata "spoliarum proscriptionis Sullanae”, e da Cicerone (106-43 a.C.) detta funesta ai Romani quanto il lago Trasimeno, perché intorno al "locus” vi furono appese le teste dei Senatori condannati da Silla (138-78 a.C.). Festo dice che Menenio Agrippa (63-12 a.C.), ad ornamento della fontana, pose una ”effigies hydrae”.
[2] ) Per la sua costruzione furono demolite le "tabernae veteres” , che servivano di mercato al popolare quartiere del Velabro, e la basilica Sempronia fu eretta da Tiberio Sempronio Gracco nel 170 a.C. dov'era stata la casa di Cornelio Scipione Africano senior (234-183 a.C). Quando nel 1781, facendosi alcuni scavi e in una vigna poco distante da Porta San Sebastiano, venne in luce un ipogeo funebre, riconosciuto poi degli Scipione, il sepolcro di Cornelio Scipione Barbato, padre dell'Africano conquistatore dei Sanniti, console nell'anno 455 ci (298 a.C.), fu manomesso. Signore elegantissimo secondo il racconto di A. Verri, scesero nel sotterraneo per frugare fra il terreno umidiccio, e questo in seguito all'impressione prodotta da quel ritrovamento che aveva mobilitato "Tutta Roma". Racconta l'archeologo Dutenz "Quando fu aperto il sarcofago, lo scheletro era intero e aveva ancora al dito l'anello che il papa Pio VI mi fece l'onore di darmi e che io ho posto nella mirabile raccolta di Lord Beverly". Anche il senatore veneto Angelo Quirini riuscì a farsi dare quelle ossa che trasportò a Padova. E Pio VI fece trasportare in Vaticano il sarcofago di peperino ed il busto dell'eroe, coronato di Lauro, nella stessa pietra. Fu in seguito a questo ritrovamento che e Alessandro Verri scrisse quelle "Notti romane al sepolcro degli Scipione" tradotto in tutte le lingue europee.
[3] ) A conferma, anche Varrone scrive :"ab eis (Tuscis) dictus vicus Tuscus et ideo ibi Vertumnum stare quod is deus Etruriae princeps”. E il sacello, che sembra fosse un "ianus” con sotto la statua del dio, e che si trovava all'angolo del Vicus con la via Sacra, fu spostato più a sud per la costruzione della Basilica Giulia.
[4] ) Vendita di incenso.
[5] ) Plauto (254-184 a.C.) nel Curculio dice : "Dietro al tempio dei Castori e al Vico Etrusco si raccoglie la gente schifosa e di cattiva fama".
[6] ) “Super templum divi Augusti ponte transmisso, Palatium Capitoliumque coniunxit” (Svetonio 69-150). Ora se il "templum novum divi Augusti” è quello che si crede avesse la fronte a ponente e corrispondere, circa, alla chiesetta di Santa Maria de Gratiis, inclusa nell'ospedale della Consolazione, è invece su questo che poggiava la prima campata del ponte che attraverso la seconda, sul “Vicus Jugarius”, terminava al “Clivus Capitolinus”.
[7] ) Tabulae honestae missionis.
[8] ) Horrea Agrippiana - Al principio di Roma, quando la popolazione era piccola, erano sufficienti i mercati del Velabro e della via Sacra. Con l'aumentare dei cittadini fu necessario istituire le Horrea. Il portico fabario, il vico frumentario, il vico bubulario, ecc. Così per le diverse industrie: vico sandalario, iugario,vitrario, unguentario, inter falcarios,inter lignarios, argentario, etc. Presso il Foro, tra il vicus Tuscus e il clivus Victoriae è stata rimessa in luce dal Boni la prima delle 3 cohortes degli "horrea Agrippiana". Essa presenta sui lati una fila di celle che si aprono sotto un portico, che recinge un’area (lastricata di travertino) in mezzo alla quale si eleva un sacello con ancora a posto l'iscrizione dedicatoria al Genio protettore degli horrea. L’area, originariamente libera, è stata rinvenuta occupata da celle stabilite senza fondazioni sul lastricato di travertino. Gli horrea, come si rileva dalla suddetta iscrizione, si chiamavano semplicemente “Agrippiana” e non erano privati ma di Stato. Fondati verosimilmente da Agrippa, ebbero modificazioni, rifacimenti, ampliamenti nell’età dei Flavi e poi nell’età severiana. Quando all’annona di Stato si sostituì la beneficienza ecclesiastica, gli “horrea Agrippiana” divennero “horrea Eclesiastica”; nel mezzo di essi, cioè nella seconda “cohors”, si eresse, nel sec. VI, la chiesa diaconale di S. Teodoro. A compenso del terreno della II color vigilum, da essa occupato, l’area libera della prima fu riempita di celle, come detto. Gli horrea funzionarono fino al IX secolo. Anche gli « horrea Germaniciana » erano prossimi nella VIII regione.
[9] ) Navio era un augure che, per mostrare la sua ispirazione divina, aveva tagliato una pietra con un rasoio e poi nascosto i due oggetti in un pozzo (Livio, I, 36).
[10] ) Nella Repubblica fu colpito dal fulmine e perciò fu recintato con una balaustra; ma nel 77 d.C. rifiorì quasi improvvisamente dopo oltre otto secoli con grande gioia del popolo che era affezionato a quest'albero che aveva salvato Romolo. “Colitur ficus arbor in Foro ipso ac Comito Romae nata, sacra fulguribus ibi condilis magisque ob memoriameius quae, nutrix Romuli ac Remi conditores imperii in Lupercali prima protexit, ruminalis appellata, quoniam sub ea inuenta est lupa infantibus praebens - ita vocabant mammam -, miraculo ex aere iuxta dicato, tamquam in comitium sponte transisset Atto Nauio augurante". "Nec sine praesagio aliquo arescit rursusque cura sacerdotum seritur.” (Plinio il vecchio). ”Eodem anno Ruminalem arborem in comitio, quae octingentos et triginta ante annos Remi Romulique infantiam texerat, mortuis ramalibus et arescente trunco deminutam prodigii loco habitum est, donec in novos fetus revivesceret". (Tacito, annali, libro XII, 58).
[11] ) Lupercalia - I primi quattro giorni erano una preparazione ai Lupercali cui si sacrificava sulla via che conduceva al Circo, alle falde del Palatino. I Luperci [Quintigliani e Fabiani e una terza corporazione Giuliani, sotto Caio Giulio Cesare (100-44 a.C.)] cominciavano il loro corso dal Lupercale dando luogo a cerimonie (« Cerimonia » sembra che derivi da « Cere » la città etrusca.) in cui si scannavano delle capre, poi condottivi 2 giovanetti nobili, alcuni col coltello insanguinato toccavano la loro fronte, subito altri la ripulivano con lana bagnata nel latte mentre i giovani appena forbiti (puliti) dovevano ridere. Tagliate quindi le pelli delle capre in corregge, nudi o quasi, correvano per la città colpendo con quelle a chi incontravano. Le donne non ne schivavano le percosse credendo che esse aiutassero ad ingravidare e a partorire felicemente. Il 15 febbraio del 44 a.C., mentre impazzava nel Foro la gazzarra dei Lupercali delle tre corporazioni, il futuro triunviro Antonio che guidava in qualità di capo dei Luperci Iulii lo sfrenato rito, salì sui rostri e, arringato il popolo, dichiarandosi interprete di questo offrì una corona con il diadema regale al dittatore. L’episodio raccontato da Plutarco, Velleius Patere, Cicerone ed altri ancora (Plutarch, Ant.12; Cesar 12; Svetonio; Caesar 79; Cicero; XXX II ecc. ecc.), ci fa conoscere che Cesare, forse vedendo che la “claque” non riusciva a trascinare all’approvazione tutto il popolo allontanò Antonio, che cercava di porgli la corona sul capo, corona che fù con l’approvazione di tutti, destinata a Giove capitolino, “che è il vero e l’unico re dei Romani”. Credenza originata dalla risposta data da Giunone nel bosco delle Esquilie, alle matrone sterili, quando i parti a Roma si erano fatti molto rari: “Italicas matres caper hirtus initio” (Un capro velloso per congiunzione). Dopo il decadimento degli ultimi tempi della Repubblica, risollevati da Augusto nella riforma, i Lupercali si mantennero fino all’epoca di papa Gelasio (492-96) che li sostituì con la festa della purificazione (processione delle torce accese nella Candelora).
[12] ) I gemelli li aggiunse il Pollaiolo (1426-98).
[13] ) Nel 296 a.C. gli edili "simulacra infantium conditorum urbis sub uberibus lupae posuerunt” (Livio X, 23.12).
[14] ) Il musaico della nicchia principale è di carattere bizantino del VII o VI sec.
[15] ) Vi era ricevuto con sfarzo orientale l'esarca stesso e vi abitò pure Costante II (641-68) nel 653.
[16] ) Del resto sul Palatino stesso, fin dal secolo XV, i Farnesi costrussero i loro orti sull'altipiano del Germalo, mentre sul Palatino propriamente detto stendevasi verso nord l'orto e la chiesa di San Sebastiano (vigna Barberini). Verso il centro l'orto e il convento di S. Bonaventura. Verso il sud la villa Roncioni, gli orti Spada, poi villa Mills e più tardi il monastero della Visitazione. Dei quattro declivi, il settentrionale era occupato dalle gradinate che portavano agli orti Farnesiani, e sugli altri avvevano le vigne i Benefratelli, un Collegio inglese, i Nusiner, i Roncioni e i Butironi.
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